I Nuovi Mostri, da Dostoevskij a oggi la fenomenologia del male quotidiano

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Come può accadere che, in un giorno come gli altri, un uomo scenda da una moto, entri in una scuola ebraica di Tolosa, insegua e spari a sangue freddo dei bambini con i genitori, poi risalga in moto e si allontani? Che egli sia lo stesso – pare – che la settimana scorsa ha ucciso alcuni militari di colore aggiunge all’orrore della vicenda una motivazione razzista che la rende ancora più odiosa, ma non scioglie l’enigma che si profila dietro di essa. Perché, in quali vesti, con quali lugubri movenze, il male torna ad affacciarsi in un mondo che sembra averlo spinto ai suoi margini? Ed è lo stesso male che ci perseguita da sempre? Che ha devastato l’Europa nei primi decenni del Novecento? Oppure è un male diverso, nei modi e nelle intenzioni, se non nei suoi esiti omicidi? Quali sono, e da quali scaturigini emergono, i demoni che ancora ci afferrano alla gola? Una risposta di alto profilo a queste domande è adesso fornita da Simona Forti in un libro, appena pubblicato da Feltrinelli, intitolato appunto I nuovi demoni. Ripensare oggi male e potere. Va subito detto che esso va ben al di là  di una pur compiuta ricostruzione della riflessione otto-novecentesca sul male, per ingaggiare un vero e proprio corpo a corpo con la tradizione filosofica contemporanea. La questione del male – nel suo rapporto costitutivo col potere – diventa l’angolo prospettico da cui l’autrice riesce a serrare in un medesimo giro d’orizzonte il pensiero che da Kant muove da un lato verso Heidegger e Levinas e dall’altro verso Nietzsche e Foucault, fino a lambire l’attuale dibattito su nichilismo e biopolitica.
L’epicentro simbolico, e il perno di rotazione interno, del libro si può trovare nel più celebre episodio de I fratelli Karamazov di Dostoevskij. «Noi non siamo con Te, siamo con lui» – sussurra il Grande Inquisitore a Cristo, ritornato fra gli uomini ed imprigionato, mentre centinaia di eretici bruciano ad maiorem Dei gloriam. In questa scena leggendaria, in cui il vegliardo enuncia a Cristo i motivi per i quali la Chiesa avrebbe scelto il demonio, l’autrice individua il “paradigma Dostoevskij” – alludendo allo sguardo abissale con cui l’autore de I demoni sfonda la soglia estrema davanti alla quale, pur cogliendo l’enigmatica relazione tra libertà  e male, Kant si era ritratto, spaventato della sua stessa scoperta. Il volto della medusa sul quale lo scrittore russo getta un fascio di luce, lacerando di colpo il velo con cui la tradizione metafisica lo aveva coperto, è la consapevolezza che l’uomo non fa il male perché ignaro di farlo, o magari perché costretto dalle circostanze, ma perché ne trae il piacere inebriante di sottomettere altri uomini, fino a distruggerne la carne e lo spirito. In questo senso – che è quello, primordiale ed ancora attuale, del dominio e del sangue, della violenza e della resa – una intera linea interpretativa ha parlato di nichilismo come capacità  di ridurre l’uomo letteralmente a niente, a pura materia, vivente o morente, di una smisurata volontà  di potenza.
Ma le parole del Grande Inquisitore dicono anche qualcosa di altro, non del tutto percepibile nella furia devastante degli eroi negativi de I demoni. Esse dicono che il potere – come si esercita in tutti gli incunaboli della sovranità  – non è che la controfaccia di una volontà  di obbedienza che chiede di essere attivata per proteggere gli uomini non solo dai rischi esterni, ma da una libertà  che essi temono di esercitare. Qui, nel cuore della sua analisi, Simona Forti apre un varco ermeneutico, già  inaugurato da Nietzsche e allargato, in maniera diversa, da Hannah Arendt e Michel Foucault. Al suo centro vi è l’individuazione di quella volontà  di vita cui la riflessione contemporanea ha assegnato il nome di biopolitica. Qualsiasi cosa si voglia intendere con esso, ciò che tale dispositivo teorico revoca in dubbio è quel rapporto verticale tra vittima e carnefice che a lungo è stato attribuito al regime del male – anche quando questo si è infinitamente ampliato sia nel numero di coloro che lo esercitavano sia in quello di coloro che sono stati costretti a subirlo. 
Perché perfino quando tale rapporto – tra la malvagità  senza freni dei persecutori e l’indigenza più inerme delle vittime – ha conosciuto, nel genocidio ebraico, l’apice e, per così dire, il grado zero, neanche allora si è trattato di una semplice relazione a due. Anche in quel caso, tra gli uni e gli altri, si è inserita la presenza, grigia e incolore, di demoni minori che pure hanno collaborato indirettamente al massacro o lo hanno consentito con la loro inerte compiacenza. Dal libro di Hilberg sulla Distruzione degli ebrei in Europa (Einaudi 1999), a quelli di Browning Uomini comuni (Einaudi 1995) e di Goldhagen I volenterosi carnefici di Hitler (Mondadori 1998), è stato ampiamente documentato il ruolo di quei desk killers che, protetti dal loro compito burocratico, hanno costituito le rotelle, silenziose e decisive, del meccanismo di sterminio. Ma forse nulla più del processo ad Adolph Eichmann – documentato negli straordinari reportage di Hannah Arendt editi col titolo, forse riduttivo, ma certamente sintomatico, di La banalità  del male (Feltrinelli 2003) – esprime il carattere, apparentemente anodino, di questo Effetto Lucifero (Cortina 2008), come Philip Zimbardo ha definito il comportamento sadico indotto dalla emulazione e dalla sudditanza ad un aberrante principio di autorità . E del resto cosa altro traspare dal sorriso ebete dei soldati americani che ad Abu Ghraib si sono autofotografati accanto al corpo inerte di nemici morti o torturati?
Ciò che dall’evocazione dei nuovi demoni – dell’inerzia e del conformismo, dell’obbedienza cieca e della irresponsabilità  – l’autrice ricava è intanto la necessità  di scardinare la gabbia interpretativa entro cui la tradizione filosofica ha chiuso, di fatto neutralizzandola, la fenomenologia del male. Il male non è né una semplice increspatura dell’essere, destinata ad essere risarcita e dissolta nei processi di secolarizzazione, né una sostanza metafisica eternamente in lotta con il principio, altrettanto assoluto, del Bene. Esso, tutt’altro che irrigidito in una livida sentenza di morte, nasce e si sviluppa come effetto sinistro di una indifferenziata volontà  di sopravvivenza – sopravvivenza ad ogni costo, anche quello di poggiare sulla infinita piramide di morti che Elias Canetti ha intravisto nei tratti sfigurati di un potere originario (su cui si veda il bel saggio di Giacomo Marramao Contro il potere, Bompiani 2011, già  segnalato in queste pagine da Nadia Fusini).
Ma Simona Forti è andata oltre la decostruzione di una lettura semplicemente dicotomica del male. Ciò che si profila nelle pagine finali della sua genealogia, dedicate a due autori del dissenso contro il regime sovietico come Jan Patocka e Và clav Havel, è una modalità  non soltanto critica, ma anche affermativa, di intendere la relazione tra potere e soggetti. Se è vero, come ha sostenuto Foucault, che ogni processo di soggettivazione ha a che fare con una qualche forma di assoggettamento, è anche vero che il potere genera sempre, se non l’attualità , quantomeno la possibilità  di una resistenza. Per tenerla sveglia, anche quando un peso infinito sembra gravare sulle nostre vite, si tratta di tentare uno sdoppiamento nei confronti di noi stessi. Di resistere alla tentazione del cedimento e della compromissione nei confronti del male, attraverso l’attivazione di una forza contraria cui la tradizione occidentale talvolta ha dato il nome, limpido e intenso, di anima.


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