I giudici tributari al servizio dei clan: tasse cancellate

by Editore | 20 Marzo 2012 8:02

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NAPOLI — Da un’inchiesta sul riciclaggio di danaro sporco e sulle attività  imprenditoriali riconducibili al potente clan camorristico dei Fabbrocino, la Direzione distrettuale antimafia di Napoli, grazie alle indagini condotte dalla Guardia di finanza, è arrivata a scoprire una lunghissima serie di presunti illeciti in un ambito che fino a ieri si immaginava lontanissimo dal mondo della criminalità  organizzata: quello delle commissioni tributarie. Dove, scrive il giudice delle indagini preliminari Luigi Capuano, sarebbe avvenuto un vero e proprio «mercimonio delle sentenze» a vantaggio di chi presentava ricorso.
L’inchiesta — coordinata dal procuratore aggiunto Federico Cafiero de Raho e dai sostituti Francesco Curcio, Alessandro Milita e Ida Teresi — ha portato ieri a 47 arresti, tra i quali spiccano i nomi di sedici giudici tributari (tre in carcere e tredici ai domiciliari), otto tra funzionari e impiegati della commissione tributaria provinciale e di quella regionale, un componente dell’Autorità  garante per il contribuente della Campania e un professore universitario della Federico II. Per un funzionario dell’Agenzia delle entrate di Napoli, invece, il gip ha disposto la misura del divieto di dimora nel capoluogo partenopeo. Nelle intercettazioni raccolte durante le indagini compare anche il nome di Luigi Saviano, padre dello scrittore Roberto Saviano, che si sarebbe rivolto a uno dei giudici arrestati affinché venisse accolto un suo ricorso. L’uomo, però, al momento non è indagato.
Al centro delle indagini ci sono invece le attività  dei fratelli Fedele, Giovanni e Francesco Ragosta (tutti arrestati), passati in pochi anni da riciclatori di ferro vecchio a titolari di un gruppo imprenditoriale che spazia dal settore siderurgico a quello alberghiero, dall’immobiliare all’alimentare, e con un giro d’affari che ne fa sicuramente uno dei più importanti dell’Italia meridionale. Il padre dei fratelli Ragosta, Giuseppe, fu ucciso in un agguato agli inizi degli anni Novanta a San Giuseppe Vesuviano, e già  ad allora i magistrati della Dda fanno risalire il legame con il clan Fabbrocino. Un legame rafforzatosi nel corso degli anni, con i Ragosta che avrebbero assunto sempre più il ruolo di riciclatori del denaro accumulato illecitamente dalla cosca. Le indagini della Finanza sono arrivate fino in Belgio, Lussemburgo e Svizzera, dove sono state rintracciate ingenti somme (svariate decine di milioni di euro) depositate su conti cifrati e di fatto nella disponibilità  dei Ragosta. In Italia, invece, tra complessi immobiliari, alberghi, aziende e altre proprietà , al gruppo sono stati sequestrati beni per circa un miliardo di euro. 
Una ricchezza accumulata anche grazie al controllo delle commissioni tributarie, con un meccanismo che sarebbe stato messo in piedi dalla commercialista Anna Maria D’Ambrosio, consulente fiscale dei Ragosta e giudice tributario. Sarebbe stata lei a trovare colleghi disposti a offrire sentenze favorevoli (in certi casi scritte addirittura dai consulenti di chi presentava i ricorsi) offrendo in cambio la stessa garanzia a parti invertite. Il continuo scambio di ruoli tra giudici e consulenti (posizioni in realtà  incompatibili) assicurava il funzionamento del meccanismo. E in questo modo le aziende dei Ragosta avrebbero ottenuto enormi risparmi, «con danni incalcolabili per l’Erario», scrivono gli inquirenti, e anche rimborsi dell’Iva ai quali non avevano diritto. Accuse tutte respinte dall’avvocato Mario Papa, difensore di Fedele Ragosta: «La Procura non può accusare il Gruppo Ragosta di essersi arricchito con l’evasione tributaria e, contestualmente, non riuscire a giustificare la provenienza della sua ricchezza».

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