Gli Artigiani del futuro Ci salveranno gli inventori

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La nuova rivoluzione industriale che bussa alle porte dell’Italia si è annunciata con un colpo di cannone. Dentro la Casa Bianca, accanto allo Studio Ovale del Presidente. È accaduto qualche giorno fa. Barack Obama aveva invitato i giovani talenti che avevano vinto gare scientifiche di ogni tipo. Tra questi un ragazzino di 14 anni, Joey Hudy, occhialoni grossi da miope a incorniciare un viso minuto. Joey viene da Phoenix, Arizona, ed è un “maker”, ovvero uno che costruisce oggetti: anzi li immagina, li progetta, li realizza e li vende. Tutto da solo. La sua fabbrica è la sua cameretta. Alla Casa Bianca Joey aveva portato un cannone. Anzi un extreme marshmallow cannon: insomma, uno spara-caramelle. Il presidente quando ha visto questo oggetto lungo e sbilenco dapprima ha sorriso, poi ha voluto provarlo: era la prima volta che qualcuno sparava dentro la Casa Bianca, ha detto, non era sicuro che i servizi segreti avrebbero gradito la cosa. Joey ha caricato. Ha sparato. Tunf. Il marshmallow ha attraversato il salone senza fare danni seguito da decine di occhi. E mentre il Presidente rideva, il ragazzino gli ha dato il suo biglietto da visita: sotto il nome di Joey Hudy, Obama più tardi avrebbe letto una bella frase, una frase che dice quasi tutto di questa generazione che punta a cambiare per sempre il concetto di fabbrica, di lavoro, di mercato. “Do not be bored, do something”, cioé smettetela di annoiarvi, fate qualcosa. Anzi, costruitela questa cosa, oggi si può.
Dicono che questa dei “maker” sarà  la nuova rivoluzione industriale. Il primo a intuirlo è stato il direttore del magazine Wired, Chris Anderson, che nel 2010 intitolò un suo saggio, “Gli atomi sono i nuovi bits”: prendeva spunto dal nome di un laboratorio aperto al Mit di Boston qualche anno prima da Neil Gershenfeld, “Center for bits and atoms”, luogo dove produrre quasi-qualsiasi-cosa. «La cultura digitale dopo aver rivoluzionato il mondo dei bit e quindi l’editoria, la musica e i video attraverso Internet, ora sta per trasformare il mondo degli atomi, quindi degli oggetti fisici», avvertì Anderson che è a sua volta un “maker”, nel senso che ha avviato con molto successo la produzione di droni fatti in casa e la sua neonata azienda di 16 persone fattura tre milioni di dollari l’anno vendendo kit per aeromodellini con videocamera incorporata. Come nella prima rivoluzione industriale fu una macchina, la macchina a vapore, a innescare un cambiamento epocale, anche in questo caso c’è di mezzo una macchina: è la stampante 3D, in pratica è una macchina che “stampa” oggetti come stamperebbe un foglio. Non si tratta di una cosa nuova in assoluto, sono trent’anni che strumenti simili si usano in fabbrica. Ma tutto è cambiato quando nel 2009, in un ex birreria di Brooklyn, Bre Prettis, 38 anni, hacker con la passione dei robot, ne ha realizzata una da circa mille dollari. Invece di 100 e passa mila. La nascita della mitica Maker-Bot è stato come il passaggio, negli anni Settanta, dai computer che occupavano una intera stanza e costavano come un carrarmato, al pc da tavolo e per tutti: l’inizio di una rivoluzione, appunto. Quello della fabbrica personale. 
In questi tre anni con le stampanti 3D è stato stampato ogni cosa. C’è un architetto italiano, Enrico Dini, che stampa addirittura case o barriere coralline artificiali per emiri arabi. E c’è chi ha stampato copie di presidenti. È accaduto qualche giorno fa, a Washington: lo Smithsonian, che è il più grande museo del mondo, ha annunciato di aver stampato una replica della famosa statua di Thomas Jefferson a Monticello. Lo scopo? Replicare velocemente l’intera collezione del museo (137 milioni di pezzi) per farne delle mostre itineranti. Ma l’oggetto che ha fatto più scalpore è stato un violino, prodotto un anno fa da una società  tedesca. The Economist gridò al miracolo mettendolo in copertina con il titolo “Stampami uno Stradivari”: oltre lo stupore per l’oggetto in sé, c’era l’intuizione di un ribaltamento di prospettiva: «La rivoluzione industriale inventò la produzione di massa e l’economia di scala; ora invece le stampanti 3D consentono a chiunque di produrre un singolo oggetto a costi bassissimi». Cosa comporta questo per il futuro lo ha spiegato meglio di tutti lo scrittore canadese Cory Doctorow in un profetico romanzo del 2009, intitolato appunto Makers: «I giorni di società  chiamate General Electric, General Mills, General Motors sono contati. Ci sono miliardi di opportunità  imprenditoriali a disposizione delle persone creative e brillanti». Il futuro, secondo Doctorow, è quindi di società  come Local Motors: nata a sud di Boston ha progettato e realizzato un auto da corsa con il contributo creativo di migliaia di appassionati. «La Rally Fighter è passata dal progetto al mercato in 18 mesi, il tempo che ai colossi dell’auto a Detroit serve per cambiare le decorazioni di una portiera», ironizza in proposito Anderson. Questa rivoluzione industriale ha molto della cultura fai-da-te degli americani ma con un cuore, anzi un cervello italiano. Non si tratta più infatti soltanto di stampare o tagliare oggetti, ma di renderli intelligenti. E interconnessi. Per fargli fare delle cose. A questo pensa Arduino. Ha un nome da re ma non è una persona, è un microcomputer da 20 euro che ha conquistato il mondo (ce ne sono in giro 400mila ufficiali, con il profilo dell’Italia stampato sul circuito elettronico, più almeno altrettanti clonati in Cina). Lo ha creato nel 2005 un giovane ingegnere ribelle, Massimo Banzi, 42 anni, mentre faceva un corso di interaction design agli studenti della scuola di Ivrea. A cosa serve Arduino? Banalizzando, a far compiere un’azione ad un oggetto: per esempio a farti ricevere un sms quando la tua pianta ha bisogno di acqua. E a moltissime altre cose più importanti. Tutte quelle che puoi immaginare. «Arduino è una piattaforma per il futuro», sintetizza Banzi che all’estero è una vera star, uno dei leader della rivoluzione in corso. Arduino è un progetto aperto, così come la MakerBot, i droni di Anderson, l’auto da corsa di Boston e come tutto quello che fanno i “maker”. Vuol dire che sono stati progettati collettivamente, usando la rete, e non hanno copyright. Questo è un aspetto cruciale adesso che decine di venture capital si avvicinano a un settore dove intravedono possibilità  di guadagno. Adafruit per esempio, è una startup nata in un loft del quartiere di Wall Street e diventata famosa con degli oggetti intelligenti realizzati riciclando le scatole metalliche per mentine Altoid: l’anno scorso ha venduto kit per 5 milioni di dollari. Ma come investire in un’azienda che non brevetta nulla e che anzi, si vanta di condividere tutto? Bre Pettis, che per MakerBot impega 82 persone e ha venduto kit per stampanti 3D fai-da-te per 10 milioni di dollari, avverte: «Chi non condivide i propri progetti, sbaglia». Punto. È anche questa la cultura digitale a cui faceva riferimento Anderson nel suo saggio: la condivisione e la partecipazione applicata alla produzione di oggetti. E se vi sembra una cultura di nicchia, sappiate che sta dilagando. Alle Maker Faire cinque anni fa andavano poche migliaia di persone: ora sono centinaia di migliaia, gli sponsor sono Microsoft, Pepsi Cola e Ford, e da tre anni una edizione molto spettacolare si svolge in Africa. Mentre i FabLab, lanciati dal Mit per replicare laboratori dove produrre facilmente oggetti, sono arrivati in tutto il mondo, persino in Afghanistan e CostaRica. In Italia ne è appena aperto uno, a Torino, si chiama Officine Arduino ed è nato sulla scorta di un FabLab sperimentale varato in occasione degli eventi per celebrazioni dei 150 anni. Nessuno sapeva dire bene cosa fosse quel posto lì, ma c’era tutti i giorni la fila. Le persone facevano cose. I “maker” stanno arrivando.


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