GLI AGGETTIVI DEL SOCIOLOGO: STANCA, ECCITATA O INCERTA. MA IN QUALE SOCIETà€ VIVIAMO?
La società è stanca. Lo pensa e lo scrive il coreano Byung-Chul Han, professore all’università di Karlsruhe (la stessa dove insegna Peter Sloterdijk), il cui pamphlet La società della stanchezza (nottetempo) ha sollevato in Germania molti interrogativi sul modo in cui oggi gli individui vivono la competizione. Anche un altro studioso, il sociologo tedesco Christoph Tà¼rcke, ha richiamato l’attenzione su temi analoghi, puntando però con La società eccitata (Bollati Boringhieri) sul sensazionalismo come tratto specifico del mondo contemporaneo. Sempre più i sociologi aggettivano il loro lavoro, lo rendono riconoscibile attraverso un’immagine, una battuta, uno slogan. Come quello lanciato qualche anno fa da Zygmunt Bauman che, analizzando la nostra incerta contemporaneità , coniò l’espressione “società liquida”, destinata a una fortuna incomparabile con quanto aveva prodotto prima e tale da trasformare lo studioso in una vera star del pensiero e da fargli aggiungere un nuovo capitolo con la “società dell’incertezza”. Poi venne la “società del rischio” di Ulrich Beck e quella “post secolare” di Jà¼rgen Habermas. Ma già prima di Bauman la fantasia era all’opera: Michel Foucault inventò, non senza qualche motivata ragione, la “società disciplinare”. E nel 1967 il situazionista Guy Debord ridusse profeticamente i nostri anni a quelli della “società dello spettacolo”. Mentre Popper aveva parlato di “società aperta”.
Ogni epoca, insomma, ha il suo tratto dominante. Nel giro di pochi decenni muta il paesaggio, cambiano le condizioni di accesso e le regole del gioco. Byung-Chul Han, per esempio, è convinto che la società disciplinare, descritta da Foucault, fatta di ospedali, manicomi, prigioni, caserme e fabbriche, non sia più la società di oggi. “Al suo posto”, scrive, “è subentrata da molto tempo una società completamente diversa, fatta di fitness center, grattacieli di uffici, banche, aeroporti, centri commerciali e laboratori di genetica. La società del XXI secolo non è più una società disciplinare ma è una società della prestazione”. Una società che passa dal dovere e dall’obbligo al potere di fare sentendosi liberata dal controllo.
La trasformazione non è priva conseguenze. Già il sociologo Alain Ehrenberg aveva colto nell’eccesso di responsabilità e di iniziativa individuale, nella pressione cui il sé viene sottoposto senza che riesca a fornire gli adeguati risultati, il diffondersi di una patologia sociale molto simile alla depressione. Più chiaramente Byung-Chul Han sostiene che causa della malattia sia l’imperativo della prestazione quale nuovo obbligo della società lavorativa tardo moderna. La frenesia con la quale tendiamo a eliminare gli intervalli e a disperdere la nostra attenzione espone l’organismo a una forma di esaurimento. La depressione – tipica di un mondo precario e spietato – esplode nel momento in cui il soggetto non è più in grado di essere all’altezza della prestazione. Al posto del fare subentra la stanchezza, l’azione lascia il passo a una forma di inedia.
La società stanca è una società depressa che ha preteso troppo dai propri soggetti. Byung-Chul Han è convinto che ogni epoca abbia le sue malattie. Il ventesimo secolo è stato l’epoca batterica finita con l’invenzione degli antibiotici. Certo, ancora oggi, circola lo spettro delle pandemie ma in realtà siamo passati dall’epoca virale a un’epoca neuronale: dalle infezioni del corpo al contagio dell’anima. Tramontate le strategie immunitarie, tipiche del secolo scorso, tese a colpire tutto ciò che è estraneo (dal virus, al nemico, all’altro, i termini in fondo si equivalgono), si fa largo uno scenario in cui l’estraneità diventa semplice differenza. “L’estraneo cede il passo all’esotico, visitato dal turista. Il turista o il consumatore non è più un soggetto immunologico”. Sparisce l’idea del negativo. Ma “la positivizzazione del mondo consente la nascita di nuove forme di violenza”. Non già una violenza virale, fondata su un nemico invisibile, ostile ed estraneo al nostro mondo, bensì una violenza neuronale, interna al nostro agire sociale che ha sbocco nella depressione o nella sindrome da deficit di attenzione.
La stanchezza dunque è la patologia del XXI secolo. Più che fiaccare il corpo, intorpidisce la mente. Eppure, una società che ripiegasse definitivamente nella depressione rischierebbe di cancellare l’altro aspetto che continua ad agitare i gangli nervosi del sociale: l’eccitazione. Siamo stanchi e al tempo stesso gasati; vogliamo ritirarci dalla gara e contemporaneamente partecipare alla competizione; viviamo una duplicità di sensazioni che è una situazione tipica della tarda modernità . Almeno è ciò che pensa Christoph Tà¼rcke, il quale ne La società eccitata descrive un mondo che ha trasformato il sensazionale in ordinario grazie a una sorta di coazione a trasmettere, che mette gli individui permanentemente in onda, eccitando il desiderio di esserci (qui Tà¼rcke rilegge in chiave presenzialista la nozione del dasein di Heidegger) e non solo di apparire.
“La lotta per l’esserci… è la lotta concorrenziale generale per la presenza mediatica: lotta per essere percepiti”, scrive Tà¼rcke. Insomma, vogliamo tutti irradiare ed essere irradiati. Riscoprendo così quello che alcuni studiosi hanno chiamato sensation seeking, la ricerca di sensazioni possibilmente estreme e tutte vissute in diretta: mentre bruciano case, precipitano aerei, i piloti hanno un incidente, vengono catturati degli ostaggi. Sono scene dove il soggetto ama sostare. Perché intuisce che l’importante è esserci. Solo così si produce il brivido dell’autentica esperienza vissuta. Che è sempre un’esperienza estrema, un trauma vissuto di riflesso. Infatti la società eccitata, descritta da Tà¼rcke, esalta il morboso, la catastrofe appena avvenuta, il delitto cruento rimasto irrisolto. Oggi il trauma, in qualunque forma si presenti, osserva lo studioso, entra a pieno titolo in una rappresentazione spettacolare che i circuiti elettronici trasmettono ripetutamente. L’alluvione di stimoli che i media provocano “consiste precisamente nell’inclinare sempre più verso lo shock”. Uno stato di ebbrezza elettronica avvolge le nostre esistenze: le eccita e le stordisce. Ma da dove nasce questa condizione, tutt’altro che tipica, della società contemporanea? Lo shock è l’inatteso, il mostruoso rispetto al quale “l’organismo non dispone di possibilità di rielaborazione nervosa”.
Qualcosa di molto simile dovettero vivere i nostri lontani antenati di fronte al terrore che cercarono di domare attraverso l’esperienza del sacro. La nostra rivoluzione ipertecnologica lascia trasparire chiari segni di una regressione arcaica. E lo shock audiovisivo, come scrive Tà¼rcke, “è anche l’erede universale di quelle sensazioni originarie che un tempo apparivano come la quintessenza del sacro”. Mai il sacro fu più presente e profano di oggi. Tutta la storia della nostra contemporaneità diventa, in un certo senso, una storia “regressiva” che cerca di scoprire dove ha origine il nostro comportamento più profondo e spaesante.
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