Giappone un anno dopo

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ISHINOMAKI – Venerdì 11 marzo 2011 la maestra Sachiko Chiba, ormai vecchia, iniziò a correre. Sotto l’asilo di Ishinomaki scappava via anche la terra e alle 14.46 la sirena lanciò l’allarme tsunami. Qui un anno fa c’era una città . Migliaia di persone, come sempre, aspettavano il sabato. L’oceano Pacifico, per uscire dal mare, impiegò 28 minuti. Sembrano sufficienti per mettersi in salvo. Alle 15.14 invece un’onda alta 37 metri fece in tempo a mangiarsi tutto. Sachiko Chiba, con tre bambini tra le mani, riuscì a salire sulla collina dietro l’ospedale, mentre l’acqua le montava sulle spalle. Quel pomeriggio a scuola c’erano cinquanta alunni. Poche centinaia di metri e tutti ce l’avrebbero fatta, un’altra volta. «Mi sono girata – dice – il mondo era scomparso e noi eravamo rimasti soli».
Un anno dopo lei è ancora in classe. L’asilo, come il quartiere, si intuisce dal perimetro: migliaia di muri rasati che dividono un deserto, come risaie pronte per essere seminate. La maestra di Ishinomaki viene qui tutti i giorni, come ogni sopravvissuto. Non sa cos’altro fare per andare avanti. Attorno a lei, lungo 240 chilometri di costa nelle prefetture di Miyagi, Iwate e Fukushima, si alzano solo gigantesche piramidi di carcasse. Ora le copre la neve, sembrano vette ghiacciate affioranti dal mare. Invece fumano ancora, simili a vulcani, scosse da incendi innescati dal metano che all’interno scava le macerie. Queste bianche montagne di fuoco sono ciò che resta di 42 villaggi e città  del Tohokou, la regione a nordest di Tokyo, spazzate via dall’onda alzata da un terremoto del nono grado Richter. Migliaia di ruspe vi si arrampicano e aprono sentieri per separare 23 milioni di tonnellate di immondizia sismica.
Un anno dopo, lo tsunami in Giappone non è passato. Oltre 19 mila morti, dagli estranei, con il tempo possono addirittura essere dimenticati. Ma poco più a sud la centrale atomica di Daiichi, a Fukushima, non è un cadavere affidato all’indifferenza della memoria. Acqua e scosse, l’11 marzo 2011, portarono alla fusione parziale o completa dei noccioli di quattro reattori. Seguirono un’esplosione, quantità  incalcolate di vapori nucleari si sono diffuse nel vento e i liquidi di raffreddamento continuano ad essere scaricati dell’oceano. Per settimane il mondo si è sentito, ed è stato, ad un passo dalla catastrofe. In dicembre è stato infine annunciato il fermo a freddo dell’impianto. In un raggio di venti chilometri l’ambiente è stato dichiarato «definitivamente inadatto alla vita». A cavallo di questo invalicabile confine, o entro cinquanta chilometri, i livelli delle radiazioni restano misteriosamente incostanti. Assenti o spaventosi, inoffensivi o mortali: pochi metri, o una corrente improvvisa, marcano un’incomprensibile e momentanea differenza. Decine di migliaia di persone, costrette dalla mancanza di alternative, iniziano a riabitare i paesi svuotati dall’incubo della contaminazione atomica. Anche a Fukushima però, come nelle prefetture cancellate dal mare, un anno fa è come fosse oggi. I giapponesi lottano contro un nemico che appare invincibile, che li ha distrutti e che minaccia di tornare per completare la missione: hanno compreso che niente e nessuno potrà  più essere come un istante prima che a Ishinomaki Sachiko Chiba cominciasse a correre.
Una settimana tra Okuma, paese fantasma spaccato dalla frontiera dell’invivibilità  atomica di Fukushima, e Kesennuma, il porto della provincia di Iwate dove i pescherecci sono finiti sulle punte dei cipressi, aiuta a capire il mutamento definitivo che sconvolge il Giappone. In un anno tutti, a partire da Tokyo, si sono trasformati in scienziati nucleari. Si esce di casa con il misuratore della radioattività  nella borsa e al posto del meteo, si consultano al computer i bollettini orari con le concentrazioni di cesio, iodio e cobalto. Sullo Shinkansen che collega l’isola di Honshu con quella di Hokkaido, all’altezza di Fukushima i passeggeri smettono di mangiare, alzano l’inutile mascherina bianca oltre il naso e nessuno fiata più. La nazione ha l’impressione di essere ripiombata nell’incubo degli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale. Le autorità  assicuravano che il Giappone era prossimo alla vittoria e gli adolescenti venivano lanciati a morire al fronte. Il disastro era evidente a chiunque e così nessuno credeva più a nulla. Come oggi. Il governo, la Tepco (la società  che gestisce la centrale di Daiichi) e la comunicazione di Stato garantiscono quotidianamente che l’emergenza atomica è superata. Nessuno però si fida e la popolazione continua a comportarsi come nel pieno della crisi. Non c’è un ministero, o un istituto di ricerca, nelle condizioni di provare l’assenza di pericolo. Anche le affermazioni di rischio, diffuse da associazioni ambientaliste e inchieste di commissioni indipendenti, risultano minate dalla vaghezza. Questo senso di sfiducia reciproca, di sospetto, di pessimismo e di collettività  ostilità , ha segnato dal primo istante la tragedia di un anno fa. Fino a sfociare oggi in un carattere nazionale, in una sorta di nuova identità  che presenta il marchio del declino fatalista.
Per la prima volta, dopo quasi mezzo secolo, il Giappone è così di fatto una potenza post-nucleare. L’11 marzo 2011, 54 centrali atomiche producevano il 30% dell’energia elettrica della terza economia mondiale. Ne restano in funzione ancora due, che saranno fermate entro aprile. L’effetto-Fukushima, per il popolo-simbolo delle conquiste della scienza e della tecnologia, è uno shock. Terremoto, tsunami e avaria nei reattori, assieme a 19 mila vite, 234 mila edifici e 6 mila imprese, hanno preteso la residua traccia di fiducia di una nazione già  spossata da vent’anni di crisi e dal sorpasso della Cina. Onagawa, più ancora di Fukushima, è l’icona del sentimento essenziale di non taciuta dispersione che domina oggi il Paese. L’80% della città -industria fondata sul pesce è distrutto. Nella baia restano tre palazzi rovesciati con le fondamenta rivolte alle stelle e un enorme barattolo di resina rossa che reclamizzava il colosso locale della balena in scatola. La gente ha perduto gli affetti, la flotta, la casa e il lavoro. I sopravvissuti si sono ritirati all’interno, dietro le montagne, e vivono in alloggi temporanei che sono un esempio di ordine e di efficienza. La comunità , come tutti i comuni costieri annientati, è però divisa sul futuro. I vecchi sono la maggioranza e pretendono di ricostruire i centri dov’erano prima dello tsunami. I giovani, in minoranza, vogliono andare via per sempre e creare nuove città  lontane dal mare. Non è il consueto confronto generazionale tra conservatori e progressisti. Il terremoto ha scoperto d’un tratto il cancro più profondo che corrode il Giappone: il crollo demografico del popolo con il tasso di invecchiamento più rapido del pianeta. Entro il 2060 i giapponesi caleranno del 33%, il 40% sarà  oltre i 65 anni, i bambini tra zero e quattordici anni risulteranno dimezzati e gli abitanti, da 128 milioni, crolleranno a 86 milioni. Come può, una popolazione di elettori e funzionari dominata dai pensionati, affrontare le spese per bonificare 2400 chilometri quadrati di macerie, in parte radioattive, anteponendo il futuro altrui al proprio passato? Questo drammatico scontro sociale sull’idea di generosità , che impedisce la ricostruzione, è lo stesso che frena lo smaltimento della massa di detriti urbani più grande della storia e che aizza le prefetture l’una contro l’altra. Il governo ripete gli appelli alla solidarietà , affinché inceneritori e discariche delle zone risparmiate accolgano le macerie del nordest. Ma nel Giappone in cui nessuno si fida più di nessuno e dove i vecchi chiedono solo di essere lasciati morire in pace, si alimenta la voce su tossicità  e radioattività  dell’immondizia sismica. Un anno dopo, Fukushima è così un mondo abbandonato fuori dal mondo. Tremila addetti della Tepco, con turni di tre ore, sorvegliano i reattori attualmente raffreddati e attorno la distruzione è quella dell’11 marzo 2011. La costa di Iwate, Miyagi e Fukushima resta un deserto esplosivo di cui nessuno conosce il destino. Il Pacifico, per 643 chilometri al largo da Daiichi, registra concentrazioni di cesio 137 mille volte superiori alla norma. La pesca è calata del 70% e un sondaggio della polizia rivela che il 94,3% degli abitanti, compresi quelli di Tokyo, vivono nel terrore di un prossimo terremoto disastroso nella regione del Kanto. Sfiducia, invecchiamento, distruzione, radioattività , disoccupazione, impoverimento, crisi economica, energetica ed alimentare, costituiscono la miscela post-tsunami ribatezzata appunto “sindrome di Onagawa”. Masao Goto è uno degli infetti. Ex ferroviere della linea interrotta per Matsushima, da un anno trascorre le giornate nel pachinko “Prince 21”, unico edificio ricostruito al posto delle fabbriche di ghiaccio per le ostriche. Si regola come la maggioranza dei maschi adulti. Incassa il sussidio pubblico per i sopravvissuti e va a giocarselo nella sala giochi, unico luogo dove uno sfollato può riprovare il sapore della solitudine. Sono sorti anche due chioschi che offrono prestiti per continuare ad acquistare palline d’acciaio dopo che si è perso tutto e i pachinko presi d’assalto dagli scampati al terremoto, che bruciano gli aiuti di Stato, sono diventati l’emblema del fallimento e della lacerazione giapponese. Non la sola prova. L’inchiesta di una fondazione indipendente ha rivelato complicità , impreparazione e scontri tra potere politico e interessi economici: un anno fa furono la prima causa del ritardo nei soccorsi e del disastro atomico di Fukushima. Ma emerge anche che la tivù pubblica, per mentire alla nazione e non perdere denaro, arruolava come esperti solo consulenti Tepco, che il rassicurante governo si spinse a ipotizzare l’evacuazione di Tokyo, che l’ex premier Naoto Kan non si fidava più nemmeno del direttore della centrale in panne e che solo la disobbedienza di un tecnico, che pompò acqua di mare nei reattori, salvò il pianeta dal disastro. Un caso. Il Giappone, simbolo di modernità  e di perfezione dell’Oriente occidentalizzato, distrutto dallo tsunami perché i piani di salvataggio erano sottovalutati per non intralciare cemento e affari sulla costa. E salvato dall’atomo, con cinquanta centrali nucleari sulla spiaggia, per un colpo di fortuna.
Chi non è morto, e dentro i prefabbricati dietro le colline sente oggi il peso della disperazione e della colpa, avverte che la condanna al “pachinko post-tsunami” rischia di mutare da icona popolare in destino nazionale: giocarsi il futuro a una slot machine. Kiichiro Abe, capo dei pescatori di Oura, dopo cinque generazioni ha liquidato la flotta. Il Pacifico gli ha rubato casa, figli e porto: nessuna banca gli ha offerto soldi per ripartire. «Politici vecchi vogliono le elezioni anticipate per scaricare le responsabilità  – dice – le multinazionali delocalizzano nel resto dell’Asia e i giovani si trasferiscono a sud di Osaka. Non è questo il Paese che avevamo sognato di ricostruire dopo Hiroshima e Nagasaki». A Tokyo, mentre ci si prepara alla retorica dell’ottimismo e della ripresa, delle commemorazioni e dell’anniversario di domenica prossima, si parla effettivamente di dimissioni del governo e di voto anticipato. Democratici e liberali, travolti da debito pubblico ed emergenza energetica, preparano una grande coalizione per scongiurare una deriva populista e autoritaria. L’estrema destra cresce sullo scandalo delle macerie non smaltite e sulle bugie di soglie di sicurezza anti-radiazioni che si rivelano fasulle. L’unico punto di riferimento condiviso torna ad essere così la famiglia imperiale. Un paradosso: il successore di Hirohito, il dio che ordinò di «accettare l’inaccettabile», è il solo mito scampato all’ignominia dell’11 marzo. Il tenno Akihito, 78 anni, è uscito ieri dall’ospedale, reduce da un intervento al cuore. È stato il solo, da subito, a stare tra le vittime e a sottrarsi comodità  (acqua calda, luce, riscaldamento) per non privarne chi aveva più bisogno. I giapponesi, stupiti, hanno sentito la rabbia e il dolore del vecchio imperatore malato e ricordando un’altra grandezza tragicamente dissolta, si sono commossi.
Come Keiko Sato, sopravvissuta di Miyako. Da un anno conserva in frezeer la torta al cioccolato donatale dal figlio e dal marito per il settantesimo compleanno. La pasticceria di Yamagata gliela consegnò puntualmente in tenda, due giorni dopo che lo tsunami le aveva inghiottito la famiglia. Due dispersi, non recuperati. «Ne mangio un boccone alla volta – dice – per essere sicura che un tempo ho avuto una vita reale. Per finirla aspetto che ritornino i miei cari». Mancano pochi giorni all’11 marzo 2012, primo anniversario di tre esplosioni della natura rese catastrofi dall’uomo: da una remota regione di pescatori, di coltivatori di riso e di albicocche, di allevatori di mucche e di pionieri delle industrie hi-tech, hanno cambiato il corso dello sviluppo sulla terra. Anche il Giappone post-nucleare corroso dalla tentazione di un nuovo atomo, come la vedova Sato è oppresso dall’abisso e sogna un impossibile prodigio. Vorrebbe svegliarsi, un anno dopo, e scoprire che a Ishinomaki la maestra Sachiko Chiba non ha mai cominciato a correre con tre bambini nelle mani.
Ma lei è qui e non si può.


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