Giangiacomo Feltrinelli, le confessioni di un editore militante

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Dunque mi devo definire: devo definire me stesso in quanto editore; o perlomeno devo presentarmi, mostrarmi, spiegarmi in rapporto col mestiere che per il novanta per cento del mio tempo faccio da quasi quindici anni. Potrei cominciare dal mestiere: per semplificare le cose, togliendo di mezzo la mia persona; oppure potrei cominciare dalla mia persona, ma in questo caso, purtroppo, non riuscirei a togliere di mezzo il mestiere… Dunque, comincio dal mestiere. Ma non voglio definire l’editore, anzi l’Editore: a mio modo di vedere si tratta di una funzione indefinibile, o meglio definibile in mille modi. (…) 
Sarà  un difetto, sarà  un vizio: ma anche se auspico la fortuna economica della mia casa editrice, non posso fare a meno di ricordare che essa è nata soprattutto da un miraggio, no: da un’intenzione, addirittura da un bisogno e da un desiderio che esito a definire culturali soltanto perché la parola cultura, Cultura, Culture mi appare gigantesca, enorme, degna di non essere scomodata di continuo. Diciamo allora che: anche se auspico la fortuna economica della mia casa editrice, ho in mente, penso, perseguo una “Fortuna” nel secondo senso. E questa è una cosa molto difficile da spiegare; a farla breve: io cerco di fare un’editoria che magari ha torto lì per lì, nella contingenza del momento storico, ma che, quasi per scommessa, io ritengo abbia ragione nel senso della storia. 
Cerco di spiegarmi meglio: nell’universo frastornato di libri, di comunicazioni, di valori che spesso sono pseudovalori, di informazioni (vere e false), di sciocchezze, di lampi di genio, di forsennatezze, di opache placidità , io mi rifiuto di far parte della schiera dei tappezzieri del mondo, degli imballatori, dei verniciatori, dei produttori di “mero superfluo”. Poiché la micidiale proliferazione della carta stampata rischia di togliere alla funzione di editore qualsiasi senso e destinazione, io ritengo che l’unico modo per ripristinare questa funzione sia una cosa che, contro la moda, non esito a chiamare “moralità “: esistono libri necessari, esistono pubblicazioni necessarie. Per quanto ciò possa apparire paradossale, io, come editore, sottoscrivo pienamente quella che Fidel Castro ha chiamato l'”abolizione della proprietà  intellettuale”, cioè l’abolizione del copyright: questa misura serve a far sì che a Cuba possano essere disponibili i libri necessari, necessari ai cubani. Ma anche in una situazione di “proprietà  intellettuale privata”, esistono libri necessari. Disgraziatamente sono qui inibito da uno scrupolo: non vorrei fare pubblicità  ai miei libri; d’altra parte, sono costretto a citare. E così cito: nell’universo delle scritture occidentali esiste un genere, una cosa letteraria, che si chiama romanzo. Molti dicono che è morto, molti dicono che è vivo: lo scrivono, lo leggono, lo comprano… Io faccio l’ipotesi che non sia né tutto morto né tutto vivo, ma che certi romanzi siano morti e altri vivi: quelli vivi sono necessari. I romanzi vivi sono quelli che colgono i cambiamenti nei livelli intellettuali, estetici, morali del mondo, le nuove sensibilità , le nuove problematiche, o che propongono un modello di questi nuovi livelli, o che stravolgono la superstizione della perenne identità  della natura umana, o che propongono nuovi paradossi – già  ora, già  qui, in questa specie di purgatorio della storia. Per questo ho pubblicato (cito a caso) Pasternak e Velso Mucci, Parise e Gombrowicz, Lombardi e Fuentes, Vargas Llosa e Sanguineti, Balestrini e Selby, Porta e Henry Miller… persino l’eterogeneità  degli accostati mi pare vitale e divertente. Per questo pubblico i giovani scrittori dell’Avanguardia. Cito un altro esempio: esistono libri politici, o meglio libri di politica. Molti sono libri “giustificativi”, cioè libri che testimoniano di mancato atto politico. Altri, non molti, sono libri pienamente politici, scritture che accompagnano un’azione politica concreta e che il pubblico vuole e deve conoscere: recentemente, in tre o quattro giorni, le librerie hanno venduto tutta un’edizione ad alta tiratura di un volumetto che raccoglie alcuni scritti di Ernesto “Che” Guevara: anche se questo libro non si fosse venduto, avrei accettato di pubblicarlo, perché gli scritti di Guevara sono scritti necessari. (…) 
Un editore può cambiare il mondo? Difficilmente: un editore non può nemmeno cambiare editore. Può cambiare il mondo dei libri? Può pubblicare certi libri che vengono a far parte del mondo dei libri e lo cambiano con la loro presenza. Questa affermazione può sembrare formale e non corrisponde in pieno a quello che penso: il mio miraggio, quello che io credo il maggior fattore di quella tal “Fortuna” di cui parlavo, è il libro che mette le mani addosso, il libro che sbatte per aria, il libro che “fa” qualche cosa alle persone che lo leggono, il libro che ha l'”orecchio ricettivo” e raccoglie e trasmette messaggi magari misteriosi ma sacrosanti, il libro che nel guazzabuglio della storia quotidiana ascolta l’ultima nota, quella che dura una volta finiti i rumori inessenziali… (…) 
Non so che cosa sia l’Editore, l’editore in sé, ma cerco di ascoltare le ragioni per cui faccio l’editore. E ammetto: l’editore non ha niente da insegnare, non ha niente da predicare, non vuol catechizzare nessuno, in un certo senso non sa niente. E ammetto: l’editore, per non essere ridicolo, non deve prendersi eccessivamente sul serio, l’editore è una carretta, è uno che “porta carta scritta”, è un veicolo di messaggi, è tutt’al più, per parafrasare quel McLuhan di cui si parla tanto, un fautore di messaggi che siano anche massaggi. E ammetto: che l’editore è niente, puro luogo d’incontro e di smistamento, di ricezione e di trasmissione… E tuttavia: occorre incontrare e smistare i messaggi giusti, occorre ricevere e trasmettere scritture che siano all’altezza della realtà . E quindi: l’editore deve gettarsi, tuffarsi a rischio di annegare, nella realtà . Senza sapere nulla deve far sapere tutto, tutto quello che serve, e che serve ai vari livelli di coscienza. Tuffarsi nella realtà : tentare la “Fortuna”. La “Fortuna” diventa allora un significato, un orizzonte, una vita svincolata e trionfante… E allora: un editore è niente, è un veicolo che può anche autodefinirsi una carretta, ma un editore può anche affrontare il proprio lavoro sulla base di una ipotesi di lavoro molto azzardata: che tutto, ma proprio tutto, deve cambiare, e cambierà .


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