Fra i profughi siriani al confine con la Giordania

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RAMYHA (GIORDANIA) – La nebbia e un’incessante pioggia avvolgono in una gelida morsa le strade tra Amman e Irbid, cancellando cio’ che resta della neve caduta senza sosta negli ultimi giorni. Un freddo intenso segna indelebilmente le residue tracce d’inverno nel nord della Giordania, dove solo alcuni chilometri coprono la distanza tra Irbid, sede della prestigiosa Yarmouk University e centro culturale rinomato in tutto il Medio Oriente, e Ramtha, piccola cittadina di frontiera con la Siria.
Come suggerito dal ministero degli interni giordano, in questo punto e poco più a est nella località  di Jabir, 80-90 mila persone hanno attraversato il confine per sfuggire alla repressione del regime di Assad. Per lo più famiglie, molte delle quali scappate da Der’a, città  ad un passo dalla Giordania divenuta simbolo della rivolta la cui miccia fu l’arresto, un anno fa, di una ventina di bambini trattati come dissidenti politici perché sorpresi a cantare cori contro Al-Assad e scrivere sui muri slogan inneggianti all’insurrezione. Secondo fonti dell’opposizione (peraltro difficili da verificare come tutto ciò che concerne il dramma siriano), gli scolari, tra i 9 e i 10 anni, sarebbero stati trasferiti a Damasco nella sede dei serivizi segreti ridenominata «Palestina» dove avrebbero subito soprusi e torture. Da lì cominciarono le violente manifestazioni di piazza che presto avrebbero contagiato il resto della Siria.
Solcando le vie di Ramtha, sede del campo di trasferimento per rifugiati di Al Bashabsha, in cui vivono attualmente tra le 500 e le 800 persone, è facile incontrare siriani dal drammatico passato recente. Ad Al Bashabsha Amnesty ha raccolto testimonianze terribili: rappresaglie nei villaggi casa per casa, artiglieria impiegata contro le manifestazioni e orribili torture che spingono in molti a preferire la morte all’arresto.
Stazionando alla frontiera si incontrano molti commercianti e corrieri che attraversando diverse volte al giorno i confini caricano all’inverosimile le loro auto. Preferiscono non parlare. La paura è palpabile. In centro città  alcune organizzazioni di ispirazione islamica distribuiscono cibo, vestiti e una piccola diaria mensile ai rifugiati. Qui un uomo scappato da De’ra due mesi fa racconta: «Ho dovuto abbandonare il mio lavoro – dice Habeeb, 38 anni -, alcuni miei amici sono stati arrestati e ho dovuto fuggire lasciando tutto». Descrive il metodo di tortura più comune: «Appendono il malcapitato per i polsi picchiandolo sul tutto il corpo e lasciandolo appeso nel vuoto per giorni». Alì, 35 anni, dice: «Hanno ammazzato un mio fratello di 19 anni e arrestato gli altri due, solo Allah sa cosa gli stia capitando». E’ a Ramtha da solo un mese con la moglie e i tre figli. Una donna di mezz’età  si avvicina, consegnandoci una chiavetta Usb. Nei file all’interno le foto del figlio: Yosouf Mohamed Al Zoubi, 21 anni. I video, agghiaccianti, mostrano la morte e gli ultimi istanti di agonia del figlio. «Era il 31 agosto, i soldati governativi entrarono nella moschea di De’ra picchiando e malmenando un gruppo di giovani al suo interno – racconta -, scoppiò l’inferno». Ai duri scontri che ne seguirono, il giovane – ripreso nitidamente dalle immagini – a poca distanza dalla moschea crolla al suolo dopo alcuni colpi di fucile. Un cecchino lo ha colpito in pieno cranio. Le immagini successive riprendono l’agonia. L’ultimo filmato mostra il riconoscimento del cadavere da parte dei familiari tra le urla disperate dei genitori e le lacrime della sorellina di 6 anni. 
La famiglia ora ha trovato un alloggio temporaneo a una decina di chilometri di distanza, tra Ramtha e Al Mafraq, altro paese in cui siriani in fuga si sono riversati. Si fa avanti il padre di Yosouf, mostrando sul collo una cicatrice profonda poco sotto la nuca. «E’ il calcio del fucile con il quale mi hanno stordito per arrestarmi – afferma Mohamed Al Zoubi, 48 anni -, mi rifiutai di firmare il verbale della polizia in cui si dichiarava che mio figlio era armato al momento del colpo mortale». Carcerato per 56 giorni, ricorda la sua terribile esperienza: «Eravamo incappucciati notte e giorno mentre ci picchiavano con legni e altri oggetti». Il viaggio riprende in direzione Al Mafraq.
Le strada malmessa annuncia la fatiscenza di Al Mafraq. Circa 700 famiglie siriane hanno trovato riparo in questo villaggio di case bianche e scarsa vegetazione. Molte arrivano da Homs. Khair Aldeen, 51 anni, viene dal quartiere di Bab Draeb. «Mio nipote aveva appena 22 anni e stava portando la macchina dal meccanico». Un colpo l’ha raggiunto al cuore uccidendolo all’istante.


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