by Editore | 13 Marzo 2012 12:46
L’alleanza di centrosinistra si farà , legge elettorale permettendo. Se la legge con cui si andrà al voto nel 2013 resterà il porcellum, «ipotesi malaugurata» dice Pier Luigi Bersani, «agli italiani non possiamo raccontare che gli asini volano, se diciamo centrosinistra di governo dobbiamo avere vincoli reciproci».
Parterre da grandi eventi, sala strapiena di popolo democratico modello convergente a sinistra, ieri al Tempio di Adriano a Roma, alla presentazione del libro di Federico Rampini, inviato di Repubblica. Il titolo dice tutto: «Alla mia Sinistra» sottotitolo «lettera aperta a tutti quelli che vogliono sognare».
Già solo presentandosi all’appuntamento, Bersani fa il gesto più di sinistra che può azzardare di questi tempi: ripresentarsi ai flash accanto a Nichi Vendola, leader di Sel. Scattano foto e anche i nervi di parecchi dirigenti Pd. Perché questa nuova immagine è fatalmente destinata a sostituire quella di Vasto, per la quale è stato messo sulla graticola dai suoi. In quella c’era anche Di Pietro. Stavolta prima avvicinarsi all’ex pm Bersani sarà più cauto.
Ma la strada è quella. La legge elettorale è ancora una chimera («noi siamo pronti», dice Bersani, ma ha il sospetto che il Pdl non faccia sul serio). E a legge invariata alla coalizione con la sinistra il Pd deve persino rassegnarsi. I numeri hanno la testa dura, ha spiegato Dario Franceschini ieri all’Unità : sommando Sel, Idv e altre sigle, più Grillo e l’astensionismo si arriva «al 20-25 per cento» e «un grande partito progressista» non può «avere alla sua sinistra uno spazio così grande».
E allora Bersani si rassegna all’ineluttabile (e già si sbilancia parecchio rispetto al suo gruppo dirigente) e mette i paletti: intanto «non si parte da una proposta settaria. Chiamare alla riscossa vuol dire non pensare di fare tutto da soli. Poi gli altri faranno quello che vorranno e amen». Tradotto, ma non ce n’è bisogno: la proposta si fa anche ai moderati, siano loro a dire no. Poi ci sono le «garanzie di governabilità », la «promessa tradita» da Ulivo e Unione. E così disegna una coalizione in vincoli: «Se abbiamo un dissenso, cosa legittima, come lo risolviamo? Si vota in assemblea congiunta del gruppo e quel che viene si fa». Vendola non fa un plissé, accetta il metodo però rilancia: sulle questioni dirimenti «allarghiamo il giro. Facciamo un referendum fra gli elettori. Come sarebbe andata se sull’acqua pubblica avessimo votato secondo gli orientamenti dei gruppi parlamentari?».
La foto ora c’è, la stretta di mano anche. Ma mettere insieme la prossima coalizione , se sarà , non sarà un pranzo di gala. L’apertura ai moderati per Vendola «non è fonte di perdizione» purché «discutiamo nel merito dell’agenda della realtà ».
Nel merito le distanze ci sono, e non solo con i moderati. C’è «la malattia del liberismo» (Vendola), e le fascinazioni «in cui siamo cascati culturalmente anche noi» (Bersani). Qui il presidente della Puglia segna un colpo con una citazione di Alfredo Reichlin, «a volte abbiamo preso lucciole per lanterne, e liberismo per riformismo». Scroscia l’applauso, Reichlin è in prima fila, ed è un fondatore del Pd.
Oggi, il «merito» si chiama riforma del lavoro, la trattativa con le parti sociali che potrebbe chiudersi entro la settimana. Bersani giura di non voler «tradire l’art.18» e avverte che «chi vuole metterlo al centro del tavolo vuole avere uno scalpo, lanciare un messaggio preciso: vogliamo risolvere il problema deregolando. Io dico no, la strada è quella di una nuova regolazione. Non antica, ma nuova». Per Vendola i margini sono più stretti: «Una manutenzione all’articolo 18 si può fare solo se riguarda il taglio dei tempi delle cause. Sui tempi, è interesse intervenire sia dell’imprenditore sia del lavoratore. Ma non vedo altri lati di possibile manutenzione. A meno che non si voglia parlare di estensione dell’articolo 18 a tutti». Bersani ha il viso tirato mentre Vendola chiede di «cancellare la legge 30, che è barbarie, correggere il circo violento che è la precarietà ». A proposito «cosa ne pensano i moderati?». Domanda retorica, Casini l’ha votata.
Bersani annuncia che il 17 marzo firmerà con Hollande, leader del Pcf francese, e Gabriel, dell’Spd tedesca, «il manifesto di Parigi», la sfida all’asse Merkel-Sakozy per un programma comune di «crescita, solidarietà e democrazia». «Ci sarà un centrosinistra dei diritti civili? Hollande è molto più avanti di voi», interrompe dalla platea un giovane del Mario Mieli. A Bersani il sorriso si spegne. Se fosse in Francia Vendola sarebbe «uno scatenato militate di Hollande». Ma a proposito «cosa pensano i moderati dei diritti civili?», «sì a un’alleanza, ma che non abbia come precondizione il suicidio della sinistra».
Le differenze sono tante, il macigno presente – insiste Sarah Varetto, direttrice di SkyTg24, che modera il dibattito – si chiama Monti. Bersani quasi si giustifica, «con Alfano non sono d’accordo quasi su niente». Mancherebbe. Vendola aggiusta: riconosce che con Monti i democratici «hanno fatto una scelta di generosità » che non sta determinando «una crisi nei rapporti con il Pd». Bersani si riprende e rivendica: «Saremmo andati avanti con Berlusconi, fino alla Grecia».
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