Fornero intrattiene Monti chiude

by Editore | 23 Marzo 2012 9:19

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Non è un paese per vecchi. Ma i giovani non hanno speranza. A scorrere le righe dei documenti «attribuiti» al governo, in materia di «riforma del mercato del lavoro», non si vede proprio quale fascia sociale – tra i lavoratori dipendenti – possa minimamente gioire. Come ti giri, è un disastro.
Verso le 20 di ieri sera si è concluso l’ultimo degli incontri sulla «riforma del mercato del lavoro». Ancora una volta bocche cucite, nell’immediato, e un ministro – Elsa Fornero – che promette «domani avrete tutti i testi». Passano pochi minuti, e subito c’è la correzione: «il Consiglio dei ministri non varerà  la riforma del lavoro, per la quale bisognerà  attendere un successiva riunione del governo». Anche per il «veicolo» legislativo, si attendono lumi dal presidente del consiglio, che però sta per partire per il suo tour in Asia, da cui presume di poter tornare con qualche «investitore» credibile. Si era parlato di un disegno di «legge delega», che rinvia di fatto di alcuni mesi l’approvazione parlamentare della «riforma». 
Nella conferenza stampa del ministro – letale – la solita lezioncina senza slide e qualche grafico, ma con tante rassicurazioni sugli effetti benefici di quel che si sta progettando. In ogni caso, giura il ministro, «l’articolato da portare il prima possibile in Parlamento» potrà  essere adottato anche in assenza del presidente del Consiglio. 
Ma su quali basi? Il resto della «riforma» – di importanza decisiva, a partire dalla radicale riduzione degli ammortizzatori sociali – ha poco spazio sui media. Tutto dipende dal valore simbolico dell’art. 18, su cui Raffaele Bonanni – segretario generale della Cisl – ha operato una delle sue normali svolte a 180 gradi: «stiamo cambiando la norma sui licenziamenti economici». Si è insomma iscritto nottetempo alla mail list dei fan del «modello tedesco» – che affida al giudice il potere di scegliere tra reintegra e indennizzo n caso di licenziamento – venendo incontro alle difficoltà  mostruose del Pd (di cui la Cisl è interlocutore importante, sull’ala Veltroni-Letta) e, soprattutto, della Cgil camussiana. 
Del resto, nella giornata di ieri, anche il Vaticano ha messo in campo i suoi pezzi grossi. «Ci voleva un pò più di tempo per mettere in atto una riforma così importante», spiegava mons. Giancarlo Bregantini, capo-commissione Cei per il lavoro. Perché c’è il pericolo di «un’ondata di terrore» per paura di vedersi licenziati per motivazioni economiche o organizzative. Fino al molto politico, e quasi definitivo, «lasciare fuori la Cgil sarebbe una perdita di speranza notevole, un grave errore».
Il «soccorso bianco» sembrava così studiato per far uscire il segretario generale di Corso Italia dal fortino di uno sciopero generale proclamato, ma non voluto.
C’è però un punto fermo: Mario Monti, sull’abolizione dell’art. 18, ha deciso di metterci la faccia. Per lui, «non ci sarà  alcuna possibilità  di reintegro dopo un licenziamento per ‘motivi economici’, ma solo un indennizzo». Delle tre «causali» che al momento ancora escludono il licenziamento – motivi discriminatori, disciplinari ed economici – nessuna era utilizzabile dalle aziendecondannate a sconfitta pressoché certa davanti al giudice. «Privilegiare» una delle tre, e sottrarla al potere della magistratura, significa aprire un buco nella diga. 
Sul resto, si diceva, pochissime novità , tutte nella logica dello «stringere i bulloni» a una serie di contratti «atipici» su cui fin qui le aziende hanno potuto contare come un porto franco. Più «difficili» i contratti a progetto, ma nemmeno tanto; e quelli a termine («penalizzati» da un contributo obbligatorio dell’1,4% che andrà  a finanziare l’Aspi, il nuovo sussidio di disoccupazione, che a regime – nel 2017 – sostituirà  integralmente diverse forme di cassa integrazione e la mobilità .
Cisl a parte, colpisce il silenzio della Cgil. A 24 ore dalla proclamazione di uno sciopero generale di otto ore – anche se con data ignota – e altre otto di assemblee informative, ci si aspettava un segno vitale forte. Le divisioni nel Direttivo nazionale, forse, non sono passate subito nel dimenticatoio. Dilatando i dubbi su una strategia «dialogante» che, fin qui, non ha prodotto risultati.

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