Felisberto Hernandez, vertigine della parola

by Editore | 20 Marzo 2012 7:08

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Considerato da Carlos Fuentes uno dei padri della letteratura ispanoamericana del Novecento, l’uruguayano Felisberto Hernà¡ndez è appena arrivato in libreria, grazie ai tipi della Nuova Frontiera e alla bella traduzione di Francesca Lazzarato, con Nessuno accendeva le lampade (pp. 126, euro 13), una raccolta di dieci racconti che il lettore faticherà  a dimenticare, sconcertato e affascinato assieme da una scrittura particolarissima. Italo Calvino, che lo scoprì nei primi anni Settanta, disse di lui: «Non somiglia a nessuno: a nessuno degli europei e a nessuno dei latinoamericani, è un “irregolare” che sfugge a ogni classificazione e inquadramento ma si presenta ad una apertura di pagina come inconfondibile». 
Pubblicato per la prima volta a Buenos Aires nel 1947, Nessuno accendeva le lampade ritrae le periferie di Montevideo e le città  dell’Argentina profonda che Felisberto girò in giovinezza come pianista spiantato. Là , personaggi marginali e ipersensibili cercano debolmente di resistere alla sensazione di sprofondare in se stessi «come in una palude», mentre si trovano a vivere esperienze al limite tra reale, surreale e fantastico: un uomo racconta il suo passato equino, la maschera di un cinema si muove nel buio grazie alla luce che emanano i suoi occhi, un giovane porta al suicidio per gelosia un balcone, un altro si vede inoculare a sorpresa la pubblicità  mentale di un mobilificio… 
Non solo, la normalizzazione dell’assurdo concede a tutti l’opportunità  di indulgere nelle proprie follie: «Amo la mia… malattia più della mia vita» dichiara l’amico del protagonista in Tranne Julia, e aggiunge: «A volte penso che potrei guarire e provo una disperazione mortale».
È come se un sottile mutamento della percezione, unito a una tendenza alla dissociazione spesso tradita dalla presenza di un doppio, gettasse una luce straniante su quanto è familiare e al tempo stesso attribuisse un’inquietante naturalezza agli eventi più irreali. In questa dimensione quasi onirica, oggetti inanimati prendono vita; idee, pensieri, ricordi e sentimenti si concretizzano, mentre il corpo umano si reifica e si frammenta in parti autonome attraverso continui scambi fra soggetto e oggetto, concreto e astratto, animato e inanimato, inducendo nel lettore, come scriveva Cortà¡zar, «il sospetto di un altro ordine più segreto e meno comunicabile» nascosto dalla realtà  apparente. 
La disarticolazione operata da Felisberto, però, va oltre e investe la stessa costruzione narrativa: non c’è vera trama, le storie si sviluppano attraverso passaggi inattesi legati a libere associazioni di idee, a inaspettate corrispondenze, quasi un pensare scrivendo, con una tecnica più simile all’accostamento di temi musicali che a un plot, non a caso l’autore era un pianista. In una lettera all’amica Paulina Medeiros, Felisberto confessa: «C’è come un processo di amicizia con le parole: prima stringo un legame diretto con ciascuna di loro e poi sono contento quando mi compaiono davanti assieme, due che assieme non erano mai state, perché hanno simpatizzato o si sono attratte a vicenda in qualche angolo della mia anima che sfugge alla mia sorveglianza». Altrove ammette: «I miei testi non hanno strutture logiche». Anche il frequente ricorso a materiale autobiografico non conduce a una vera ricostruzione del passato ma indaga le modalità  di rievocazione e il rapporto del presente con quanto viene rievocato. Felisberto, in qualche modo, ritrova così uno sguardo ingenuo, quasi infantile, lasciandolo magistralmente coesistere con quello dello scrittore. La lingua, che riecheggia il parlato ma al tempo stesso sperimenta e gioca, rispecchia questa pluralità  di voci, restituite con ammirevole efficacia dalla traduttrice. 
«Credo che la mia specialità  sia scrivere quello che non so» sintetizza Felisberto fra candido e ironico. In questa disturbante vertigine letteraria, che ha ancora spazio per l’ironia e per un delicato erotismo, sta l’incanto della sua opera.

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