Ernest Hemingway
«Gianfranco, è dura scrivere una lettera sulla tua partenza senza diventare sentimentali ed è molto dura scrivere una lettera a Venezia senza nominare Adriana, ma lo sto facendo lo stesso». Lo stile è inconfondibile. È il maggio 1956: dalla sua fattoria nell’Idaho, Ernest Hemingway così scrive a Gianfranco Ivancich, l’amico italiano di vent’anni più giovane, conosciuto al bar dell’hotel Gritti di Venezia e poi diventato “come un fratello”; mentre la sunnominata Adriana, sorella minore di Gianfranco, fu la sua musa negli anni di Di là dal fiume e tra gli alberi, e forse di lei lo scrittore si innamorò. Questa e altre undici lettere mandate a Ivancich dall’autore di Per chi suona la campana, mai pubblicate prima d’ora, sono state acquistate dalla Kennedy Library, che le presenterà ufficialmente domenica a Washington alla presenza di Patrick Hemingway, figlio del grande romanziere. «Offrono nuovi spunti sugli ultimi anni di vita di Hemingway», dice Tom Putnam, direttore della biblioteca-museo intitolata al presidente americano, che non incontrò mai Hemingway ma ne fu un grande estimatore, «sono un tesoro per gli studiosi».
In realtà sono un tesoro per chiunque abbia letto e amato Hemingway. Sono scritte a mano, con la sua caratteristica calligrafia ondulata, e a macchina, firmate talvolta “Mr. Papa” e anche “da entrambi di noi” in riferimento alla sua quarta moglie, Mary, sono spedite da Cuba e da Ketchum, la sua casa nell’Idaho, dal Kilimangiaro, da Parigi e da Madrid. Risalgono al periodo tra il 1953 e il 1960, fino a un anno prima del suicidio dello scrittore, che aveva incontrato Ivancich a Venezia nel 1949: nonostante la differenza d’età erano accomunati da ferite di guerra alle gambe e da altro, il bere, la pesca, l’avventura. Ivancich seguì Hemingway a Cuba per tentare degli affari nell’isola, fu a lungo ospite a casa sua, acquistò a sua volta una proprietà . I due continuarono a sentirsi sino alla fine: Gianfranco fu una delle poche persone presenti al funerale strettamente privato voluto dalla vedova di Hem nel 1961. È stato lui, ora 92enne, a vendere le lettere alla Kennedy Library, nel novembre scorso. «Per me hanno grande valore affettivo», confessa al telefono a Repubblica con voce rotta dall’emozione, «sono lettere private, frammenti della nostra corrispondenza, ricordi di un’amicizia importante». Nel 2008 raccontò quella amicizia in un libro, Da una felice Cuba a Ketchum. I miei giorni con Hemingway (Edizioni della Laguna). Dice: «Certo che andai al suo funerale, era un segno di rispetto per Ernest, per tutto quello che avevamo condiviso insieme».
Nelle lettere emerge una tenerezza che altrove in Hemingway non sempre traspare. Come questa, datata 1953, da Finca Vigia, la sua fattoria cubana, dove lo scrittore parla del dolore che ha provato nell’uccidere uno dei suoi gatti, “Zio Willie”, investito da un’auto: «Ho dovuto sparare a persone ma mai a qualcuno che conoscevo e che ho amato per 11 anni e nemmeno a chi faceva le fusa con due zampe rotte». Un gruppo di turisti vanno a fargli visita quello stesso giorno e lui annota nella missiva: «Avevo ancora il fucile e ho spiegato loro che erano arrivati in un brutto momento e che per favore capissero e se ne andassero. Ma il ricco cretino in Cadillac dice: siamo arrivati in un momento quanto mai interessante, appena in tempo per vedere il grande Hemingway piangere perché ha dovuto uccidere un gatto».
In una lettera Hemingway scrive di pesca: «Abbiamo pescato molto e mi sono allenato per bene e rimesso in ottima forma: niente pancia e un colore da indio tostato». In un’altra ironizza con un gioco di parole sul Nobel da poco vinto: «Il libro (Il vecchio e il mare, ndr.) è tornato nella classifica dei best-seller grazie all’ig-nobile (ig-noble in inglese) Premio». Talvolta accenna a questioni finanziarie: Lascia il resto dei soldi per me nella cassaforte del Gritti, grazie tante», comunica a Gianfranco, e nel 1958, in un altro messaggio, parla dei “pagamenti dell’Einaudi” che un certo “Dr. Camerino” forse doveva avergli recapitato dopo un suo viaggio da Mombasa all’Italia. Qui e là sembra di ritrovare l’Hemingway dei migliori romanzi, con i periodi lunghi e il ritmo cadenzato: «Questo è il primo giorno di sole dopo tanto tempo ed è bello come l’inverno dovrebbe essere e come tu lo ricordi». Lo scrittore viene fuori anche nella corrispondenza privata, ma lui si schernisce: «Vorrei poterti scrivere lettere belle come le tue», confida a Gianfranco, ma non gli pare di riuscirci, «forse perché metto tutto nel mio altro scrivere», cioè nei libri. E pochi mesi più tardi, maggio 1960, un anno prima di uccidersi, gli scrive da Finca Vigia: «Ho lavorato terribilmente sodo, scritto più di 100 mila parole dalla fine di gennaio e ogni giorno quando finisco troppo stanco per scrivere lettere. Terminata la prima bozza di questa storia di tori che viene dopo Morte nel Pomeriggio».
Per Gianfranco si avverte grande affetto: «Adesso non ho più un fratello», gli scrive una volta che l’italiano è partito, «e non ho più il mio compagno di bevute». E sempre, di lettera in lettera, ricorre il suo interesse per Adriana, la sorella di Ivancich. «Adriana non ha dato il suo indirizzo di Capri perciò per favore raccontale tutto tu tralasciando le brutte parole», scrive nel ’53. E nel ’59, dall’Idaho: «Gianfranco, sono preoccupato per Adriana e vorrei che tu mi dessi sue notizie, buone o cattive». Insieme alle lettere, la Kennedy Library ha acquistato mezza dozzina di foto: in una, seduto al bar con Gianfranco, sua moglie Mary e altri, Hemingway è accanto ad Adriana e la fissa rapito.
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