Ecco l’Illinois-day l’ultima sfida dei repubblicani a casa di Obama

by Editore | 20 Marzo 2012 7:37

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Rosenwald Hall dall’esterno è un misto fra un castello inglese medievale e una chiesa gotica. Nulla lascia indovinare che proprio da qui sia partita la lunga marcia della destra americana verso la conquista del potere, l’egemonia culturale sul pensiero economico, un controllo strategico sulla globalizzazione durato 40 anni. È questa la ragione per cui Romney ha voluto fare qui vicino il suo “Economic Freedom Speech”, il discorso sulla libertà  economica, alla vigilia della primaria repubblicana nello Stato dell’Illinois. Bisogna salire al secondo piano di Rosenwald Hall, aprire il portone con la targa Department of Economics, per penetrare in quello che fu il regno di Milton Friedman. Il «secondo economista più influente del Novecento, dopo Keynes e contro Keynes», il Nobel che consigliò Ronald Reagan e Margaret Thatcher (oltre che Augusto Pinochet), il padre del neoliberismo, una dottrina che segna questa campagna elettorale ben più di quanto si potesse prevedere. Screditato il neoliberismo? Affondato per sempre, dopo il disastro economico iniziato nel 2008? Neanche per idea. «Il Chicago-pensiero non è stato smentito – sostiene l’erede di Friedman Gary Becker, premio Nobel anche lui – perché i mercati sbagliano qualche volta, ma l’interferenza dei governi nell’economia sbaglia quasi sempre». 
Chicago per la sinistra americana evoca tutt’altri ricordi, è una città  densa di storia delle battaglie progressiste e dei diritti civili. L’alleanza con il potente sindaco di Chicago Richard Daley consentì (anche con i brogli) la vittoria di John Kennedy all’elezione presidenziale del 1960. Le rivolte dei neri nel 1968, dopo l’uccisione di Martin Luther King e Robert Kennedy, assediarono la convention del partito democratico in questa città  segnando uno dei momenti più acuti nelle tensioni razziali. L’ascesa di Barack Obama a partire da questo collegio senatoriale ha consacrato Chicago come un bastione dell’intellighenzia nera progressista, così forte da usare la meritocrazia per scalare il potere nazionale. Lo stesso Obama ha “benedetto” l’elezione a nuovo sindaco del suo ex braccio destro Rahm Emanuel, essenziale per aiutarlo a riconquistare questo Stato a novembre. 
Ma Chicago è carica di simboli anche nella storia della destra. La “scuola Friedman” è inseparabile dall’influenza che i conservatori hanno in America. Nei 30 anni che trascorse a insegnare qui, il Nobel scomparso nel 2006 ha posto le fondamenta per la «controriforma» capitalista, l’ondata delle privatizzazioni partita dagli anni Settanta, la prima rivolta fiscale iniziata nella California del governatore Reagan, la strategia di ridimensionamento del Welfare State, l’attacco ai sindacati. Figli e nipoti intellettuali di Friedman occupano ancora posti di comando in questo settore dell’università . Oltre a Becker c’è Robert Lucas, altro premio Nobel. Che ammette una sola debolezza: votò per Obama nel 2008, anche perché pensava che «fosse un altro Bill Clinton», ma oggi si dice inorridito perché è stato un presidente «di sinistra, troppo di sinistra». Oggi contro la politica economica del presidente Lucas spara delle bordate, che sono la versione accademica e nobile degli attacchi di Romney. «La riforma sanitaria di Obama non ha ancora presentato il conto – dice il premio Nobel – ma quando arriverà  la stangata fiscale sarà  pesante. I danni dello statalismo sono ben visibili in Europa: uno Stato che assorbe il 50% del Pil, è la ragione fondamentale per cui le nazioni europee non sono riuscite a raggiungere il livello di sviluppo degli Usa. Un Welfare State così costoso distrugge gli incentivi a lavorare». Romney continua ad associare Obama con «il fallimentare socialismo all’europea, i paesi dove il cittadino aspetta tutto dallo Stato, vuol essere assistito dalla culla alla tomba». La forza di questa Chicago di destra è fondamentale in vista della sfida di novembre. Il favorito Romney, o chiunque altro vinca la nomination repubblicana, dovrà  riuscire a fare il pieno di consensi tra i “Reagan-democrats”, i democratici di destra che hanno spesso fatto da ago della bilancia. Molti di loro sono operai. Negli anni del Vietnam sposarono la bandiera a stelle e strisce contro il pacifismo giovanile. Nella guerra fredda si convinsero della superiorità  del capitalismo sul modello sovietico. Sono religiosi, anti-abortisti, favorevoli alla libertà  d’uso delle armi. No, non è per nulla screditato dalla crisi del 2008 il neoliberismo di Friedman: nonostante sia proprio lui ad avere avuto un ruolo teorico fondamentale nella genesi dei derivati, della libertà  di movimento dei capitali, dello sviluppo di un settore finanziario integrato e altamente propenso al rischio. È nipotino della “scuola di Chicago” anche il Tea Party, che dal tracollo di Wall Street ha tratto una sola lezione: i controlli federali non funzionano. 
Oggi Romney in alcuni sondaggi ha 12 punti di vantaggio su Santorum, altri invece un margine troppo esile. Romney ha un disperato bisogno di portare a casa l’Illinois, per fugare lo spettro di una «convention di mediazione», che invece Santorum considera «sempre più probabile». Se uno dei due non avrà  la maggioranza assoluta di delegati prima di agosto, potrebbe accadere come nel 1976, quando si arrivò alla convention con una destra profondamente spaccata tra il moderato Gerald Ford e il radicale Reagan. Quella volta fu un disastro, la Casa Bianca andò al democratico Jimmy Carter. Ma i puri e duri del movimento conservatore ricordano che fu proprio quella resa dei conti all’interno del partito, ad aprire quattro anni dopo l’era del dominio neoconservatore.

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