Ebrei italiani allo specchio tra Unità e fascismo
Rimane un impegno di non semplice assolvimento il ricostruire la storia degli ebrei italiani, tanto più se considerati nella loro dimensione di comunità , dato che – pur nei processi di ibridazione con l’ambiente circostante – hanno continuato a coltivare peculiarità e specificità proprie, ancorché confrontandosi con i due poli dell’integrazione e dell’assimilazione. Non è poi fuori luogo affermare che l’evoluzione di una minoranza è, molto spesso, lo specchio del più generale mutamento della collettività ospite, della quale la prima misura opportunità ma anche incongruenze e contraddizioni.
L’ebraismo, peraltro, sfugge alle facili catalogazioni, non riducendosi a mera religione ma demandando, piuttosto, a una tradizione sfaccettata (nonché spesso scarsamente unitaria), dove subentrano molti fattori interagenti nella definizione e nella delimitazione del campo identitario comune. Per lo studioso, quindi, è l’oggetto stesso d’indagine a non prestarsi a facili sintesi, richiedendo semmai uno sforzo continuo di individuazione della sua natura, ossia essenzialmente dei suoi confini. Si è mossa in tal senso, con un apprezzabile impegno, Carlotta Ferrara degli Uberti, della Scuola Normale Superiore di Pisa, che attraverso la sua ricerca su Fare gli ebrei italiani. Autorappresentazioni di una minoranza (1861-1918) (il Mulino, pp. 268, euro 25) ha lavorato nel senso di ricostruire il senso di un’identità comunitaria quando questa, per più aspetti, andava negoziando e cedendo il campo a una più ampia appartenenza, quella allo Stato nazionale nato con il Risorgimento.
L’autrice non ci offre una storia degli ebrei ma una riflessione sugli «assi portanti del discorso nazionale ebraico-italiano fra l’Unità e l’avvento del fascismo». Il fuoco della riflessione evita il giudizio eterodiretto sugli «israeliti» concentrandosi piuttosto sull’autoconsiderazione, ossia i modi, i linguaggi, le forme in cui una minoranza si è raccontata in sessanta e più anni di costruzione del nostro paese, prima che la fenditura del fascismo intervenisse per dare nuove coordinate all’idea di identità nazionale e, di riflesso, a quelle di gruppo.
Si tratta pertanto della rilettura dei processi di inclusione di una minoranza che corre parallela ai processi di national building, ovvero ai percorsi di definizione della coesione sociale collettiva laddove essi richiamano la cittadinanza, l’appartenenza nazionale e il patriottismo. Il tutto è però raccontato all’interno delle logiche della componente israelitica, ovvero del maturare dell’idea di restare ebrei divenendo essenzialmente degli italiani. Per fare ciò l’autrice si è dedicata allo spoglio e alla lettura sistematica della pubblicistica ebraica tra gli anni dell’unificazione e quelli immediatamente seguenti alla Grande guerra, oltre al vaglio di una grande quantità di fonti: pamphlet, memorie, sermoni rabbinici, testimonianze scritte.
Il versante privilegiato è quello dell’ebraismo istituzionale, soprattutto laddove esso ha espresso, in forme piuttosto variegate, e non sempre riconducibili a un comune denominatore, uno sforzo di sintesi che si riproponeva anche e soprattutto obiettivi di pedagogia civile, destinati in primo luogo ai propri correligionari ma, di riflesso, anche a quanti entravano in contatto con il piccolo universo semita.
Nel libro di Ferrara degli Uberti mancano quelli che sono oramai gli abituali prismi ai quali, più o meno consapevolmente, il lettore si è abituato nello sforzo di raffigurare e definire la presenza ebraica in Italia: non c’è l’antisemitismo, se non negli inquietanti riflessi della stigmatizzazione fisiognomica e comportamentale dell’ebraismo, propria dei gabinetti medico-antropologici a cavallo tra i due secoli, in parte accettata dagli stessi destinatari di tale tipologizzazione, nel nome di un «progresso» che riduceva la natura umana a biologia; tenui sono gli echi del rapporto con i cattolici, anche se la patria italiana si costruisce in un irrisolto rapporto di antitesi e sintesi con il cattolicesimo diffuso in tutta la penisola; non ci si pone l’obiettivo di una storia politica dell’ebraismo italiano, in qualche modo invece tentata già a suo tempo da Renzo De Felice, e per buona parte ancora disattesa dalla storiografia nostrana, la quale spesso ha ripiegato sul quesito di merito sul grado di integrazione e accettezione della minoranza nel corpo di una maggioranza, laddove quest’ultima difettava però di una identità precisa.
Piuttosto, sgombrato il campo da queste premesse, ci si sofferma sulla dinamica riassumibile nella formula «ebrei in casa, cittadini fuori», riflettendo riguardo agli effetti culturali dell’emancipazione giuridica, quindi civile e politica, sul versante della considerazione di sé. Il volume è uno sguardo non intimista all’interno del privato ebraico e del modo in cui esso si presenta all’esterno, consapevole che la scomparsa delle diverse forme di ghettizzazione impedisce di non essere osservati. Uno sgradevole «privilegio», quest’ultimo, decaduto il quale si impone la riformulazione della dimensione identitaria, in rapporto a indici come la «nazione», il «popolo», la «società ».
Ne emerge un quadro dove si sommano due elementi: se da un lato l’ebraismo italiano risulta ben inserito nei processi culturali collettivi che coinvolgono il nostro paese, assumendo su di sé tutte le coordinate – anche quelle più deteriori, come il lievitante razzialismo che va accompagnandosi alle imprese coloniali in età liberale – dall’altro fatica a vivificare la formula dicotomica che ascrive alla dimensione privata la libera espressione dell’identità israelitica. La quale non può non confrontarsi con gli effetti di una «nazionalizzazione degli ebrei» di cui il fascismo, con maggiore consapevolezza, farà buon uso a proprio beneficio.
La via d’uscita, già ipotizzata all’epoca, per coltivare particolarismo e universalismo è la formulazione di una «via tradizionale», cui l’ebraismo italiano si sarebbe dovuto rifare – che, espungendo gli elementi di una impraticabile ultraortodossia avrebbe dovuto conservare e vivificare la specificità della storia della minoranza israelitica italiana nel corpo di una patria postrisorgimentale riconosciuta come propria. Quale sia stato l’esito di tale tentativo, del quale ci giungono, dallo spoglio degli articoli delle riviste ebraiche, più echi, non è cosa che pertenga alla riflessione del volume, demandando semmai alle vicende che con il fascismo e la guerra avrebbero concorso a riformulare le matrici identitarie ebraiche. Rimane il quadro di un’epoca, ricostruito non come mera giustapposizione di fatti ma anche e soprattutto come avvicendamento di sentimenti, di pensieri, di costrutti mentali laddove si delinea il concetto di cittadinanza attraverso l’elaborazione che di esso ne fa una minoranza indice nella storia nazionale.
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