Diario di un apprendistato alla vita

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La prima uscita Tutto d’un fiato ( Stampa Alternativa/Nuovi equilibri, pp. 159, euro 15. introduzione di Mario Lunetta) di di Maria Jatosti, nel 1977, presso gli Editori Riuniti, esibiva al lettore lo strazio del lutto lungamente sopportato nel precipitare dell’autodistruzione del compagno, Luciano Bianciardi. Tanto che il congedo posto in calce dall’autrice, «agosto 1974», segna una data di poco posteriore alla morte dello scrittore. I trentacinque anni trascorsi aiutano invece a mettere in luce nuovi percorsi di lettura.
Non si vuol dire che il romanzo non sia in prima istanza una scheggiata meditazione sul calvario di disfacimento dello scrittore, una lacerazione esistenziale e intellettuale a lungo nelle pagine sottaciuta, dolorante, da cui la parola prende avvio e intorno alla quale si avvolge. Oggi si può però meglio osservare, anche grazie agli studi, alle testimonianze nel frattempo venute alla luce, come una serie di procedimenti narrativi presenti in Tutto d’un fiato sia di largo spettro (come l’assoggettamento completo del punto di vista narrativo all’io, gli espedienti che teatralizzano la voce narrante, la predilezione per un registro quotidiano-risentito), sia di portata più locale, quali il frequente ricorso alla ripetizione, il gusto dell’elenco, il citazionismo, ecc. siano il portato di un’autentica bottega di lavoro comune, piuttosto che semplice derivazione dal partner più influente. Nello stesso romanzo in questione si incontrano fugaci testimonianze sulla cooperazione intensa al lavoro traduttorio, reso alienante dalla condizione precaria della coppia, sotto l’assillo delle ristrettezze economiche che la colpiscono, dalle malattie infantili del piccolissimo Marcello alla necessità  quotidiana del mangiare, all’assenza di riposo.
Per Maria Jatosti il tour de force di quegli anni è certo stato un apprendistato fondante, se le connotazione stilistica reperibile nel primo romanzo è ancora operante in Per amore e per odio, uscito da Manni nel 2011. Dovendo poi stabilire più nel dettaglio l’intertestualità  di Tutto d’un fiato, direi che la tecnica di montaggio dei frammenti della meditazione jatostiana si avvicina soprattutto al più disperato e disarmato dei libri bianciardiani, Aprire il fuoco.
È però proprio da tale raffronto che affiora meglio la nota personale, la strada che la allontana decisamente da quella del compagno. In Tutto d’un fiato, come del resto nel romanzo del 2011, a riconnettere i frammenti non gioca nessun automatismo linguistico o di erudizione storico-culturale. Agisce invece la volontà  strenua della ricerca di senso, a partire dalla propria condizione di donna, oltre le fratture e le sconfitte che rasentano la stessa autodistruzione. Nel panorama odierno, in cui la presa di parola imprevista delle donne ha messo a nudo le grottesche mosse maschiliste del potere, il ritorno dello scritto di Maria Jatosti suona familiare. Non perché l’autrice indossi panni femministi; la sua biografia appartiene a un’altra stagione. Nel libro l’io della narratrice si rapporta accanitamente con i personaggi maschili (il compagno e il padre defunti, il figlio piccolo, il fratello pittore, gli intellettuali), rare e, salvo fugaci apparizioni, non amichevoli le relazioni femminili. Né Jatosti si propone con tono rivendicativo o sminuente: di fronte alla rovina fisica e intellettuale di Bianciardi, all’estraneità  oggettivamente aggressiva di lui verso il piccolo figlio Marcello, l’io narrante femminile trova ancora il modo di riconoscergli la grandezza. 
Ma è la verità  stessa della cosa che mette a nudo lo smarrimento paranoico del maschio. La donna squaderna intrepida le forme, scruta la presunzione del proprio senso di colpa, come punto d’avvio per il recupero del senso di sé. La voce femminile che si racconta non dimentica di essere la compagna della Garbatella, né riesce a dominare la ruvidezza guardinga che sempre la mette nella condizione di sentirsi fuori posto. Però quel fuori luogo diviene occhio esterno e disvelatore. Solo incidentalmente, si potrebbe dire, nomina il lato opaco, i pianti infantili, le impotenze senza scampo, la meschineria senza riscatto che affollano il lato privato del maschio e che avvelenano le molte case che la protagonista si trova a dover abitare, dalle quali, ogni volta, è condotta al soffocamento. Così la meditazione della narratrice consegna al suo lettore e alla sua lettrice la vitalità  insopprimibile di uno sguardo che riesce ad avere insieme la forza dello svelamento e la passione della vicinanza.


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