Dell’Utri e il concorso esterno, l’antimafia vittima della paralisi

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Anche le sentenze hanno il senso della storia e così, alla scadenza dei vent’anni dal sanguinoso 1992, la Cassazione su Dell’Utri e la Corte d’Assise di Firenze sulla strage dei Georgofili rimettono in discussione i fondamenti della lotta processuale alla mafia. Il concorso esterno in associazione mafiosa è un fondamento, anche se non ha retto nei giudizi definitivi – almeno nei casi di imputati eccellenti e con l’eccezione del poliziotto Contrada. Teorizzato da Falcone come strumento per la repressione del famoso «terzo livello» il reato, come si sa, pur non essendo previsto in un articolo specifico del codice è contemplato nella fattispecie del concorso al reato tipico di associazione mafiosa. E così per «concorso», almeno fino alla requisitoria del pg Iacoviello nel processo Dell’Utri e alla sentenza della quinta sezione penale della Cassazione (di cui ancora non si conoscono le motivazioni), si è inteso qualcosa in più del favoreggiamento e qualcosa in meno dell’associazione. Un confine labile. Che adesso, nei giorni in cui crollano molte di quelle che apparivano certezze dell’antimafia, viene messo pesantemente in discussione. Anche per colpa dei ritardi e della prudenza con cui la politica e la magistratura hanno affrontato il problema.
La mancata codificazione del concorso esterno è una delle classiche conseguenze del ventennio berlusconiano. Frutto dello scontro perenne sulla giustizia che ha impedito qualsiasi mossa, anche la più urgente e necessaria. Chiusa la magistratura nel timore di arretramenti, peraltro con buone ragioni visto che i riformatori erano gli stessi che considerano «un eroe» il vero capomafia finto stalliere di Arcore Vittorio Mangano. Bloccata la sinistra politica portatrice di una sensibilità  garantista, incapace di andare oltre le varie proposte – che pure ci sono state – per ricondurre la magistratura al rispetto del principio che nessuno può essere punito per un fatto che non è espressamente previsto come reato dalla legge. Così il concorso esterno per quanto fondamentale è rimasto in balia della sensibilità  politica della Cassazione, che infatti in questi anni ha via via corretto le sue sentenze.
Da quella famosa dell’ottobre 1994 nel caso di un politico socialista della prima repubblica, il napoletano Demitry, dove si riconobbe per la prima volta la correttezza del concorso «eventuale» di chi «si aggiunge ai concorrenti necessari» nell’associazione mafiosa a quella dell’ottobre 2002 che mandò assolto il giudice «ammazzasentenze» Carnevale ma confermò la configurabilità  del concorso esterno restringendone però il campo a chi «fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo» all’associazione mafiosa. Una terza e più recente sentenza delle sezioni unite della Cassazione nel 2005, annullando la condanna di Calogero Mannino, ha precisato ulteriormente che per aversi concorso esterno occorre individuare un effettivo vantaggio, nemmeno solo promesso, per l’associazione mafiosa. Il contributo del concorrente deve cioè realizzarsi come «condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità  operative dell’associazione».
Paletti che alla fine si sono dimostrati impossibili da aggirare, come dimostrerebbe la sentenza Dell’Utri. Ma che il concorso esterno avesse bisogno di una «tipizzazione» era apparso chiaro già  da molto tempo, almeno dal 1996 quando fu l’allora Pds a tentare una prima timida mossa in quella direzione, mossa frenata però dalla preoccupazione di favorire imputati eccellenti. La preoccupazione era forse eccessiva, visto che imputazioni precedenti alla riformulazione del reato, come ha spiegato il professor Giovanni Fiandaca che durante il secondo governo Prodi guidò una commissione per la revisione del codice antimafia, avrebbero comunque retto in giudizio. Al più dovendosi applicare agli imputati le nuove pene, più lievi.
Proprio ieri, nel giorno del ventesimo anniversario dell’omicidio di Salvo Lima che inaugurò a Palermo la stagione delle stragi a seguito della rottura del patto politico-mafioso, la Corte d’assise di Firenze ha diffuso le motivazioni della sentenza del processo a Francesco Tagliavia per le stragi del ’92-’93. Spiegando che una trattativa tra stato e mafia ci fu di certo «con ampie zone d’ombra nell’azione dello stato». La nascita di Forza Italia, scrivono i giudici, fu probabilmente «vista dalla mafia come una chance per affrancarsi dalla precedente classe dirigente in declino».
Lima, referente di Andreotti in Sicilia, fu ucciso quaranta giorni dopo che la Cassazione aveva confermato l’impianto accusatorio del maxiprocesso istruito da Falcone, riconoscendo l’unicità  e la responsabilità  della cupola di Cosa nostra per i delitti di mafia. La sentenza di primo grado per le stragi del ’93 così come la nuova inchiesta per l’attentato di via D’Amelio dicono che la «vera» storia d’Italia deva ancora essere scritta. E che Cosa nostra aveva già  intravisto il nuovo ciclo, prima di chiudere con il vecchio.


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