DALàŒ: “VOGLIO ESSERE IL RAFFAELLO DEL NOVECENTO”

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«Poi vincerò una borsa di studio per andare quattro anni a Roma e al ritorno sarò un genio, il mondo mi ammirerà . O forse sarò disprezzato e incompreso, ma sarò un genio, un grande genio». Colmo di un’autostima adolescenziale che non lo abbandonerà  mai nel corso della lunga vita, Salvador Dalà­ (1904-1989) così scriveva nel suo diario di sedicenne. Siamo nel 1920, anno in cui il pittore spagnolo, che al culmine della sua parabola esclamerà  «il Surrealismo sono io!», realizza l’Autoritratto con il collo di Raffaello. È il quadro a proposito del quale molti anni dopo nella Mia vita segreta ricorderà : «Mi ero lasciato crescere i capelli, ormai lunghi come quelli di una fanciulla e guardandomi allo specchio amavo assumere l’espressione di malinconia, l’affascinante atteggiamento di Raffaello nell’autoritratto». Ed è il più antico dei dipinti, il punto di partenza della mostra romana che da domani al complesso del Vittoriano farà  luce su rapporto tra Dalà­ e l’Italia. 
Il tour ideale e reale del pittore del Bel Paese si inserisce però nel contesto di un percorso espositivo che punta comunque a descrivere l’itinerario umano di Dalà­, nell’intreccio indissolubile tra arte e vita, e sua messa in scena, da lui ordito. L’Io, il sogno surrealista e il rapporto conflittuale con i maestri italiani del Rinascimento, sono insomma i tre estremi entro cui si articola la rassegna allestita a Roma fino al primo luglio (catalogo Skira).
Lea Mattarella e Montse Aguer – direttrice del Centro per gli studi daliniani alla Fundacià³ Gala-Salvador Dalà­, Figueres, principale prestatore dell’esposizione – nel curare la mostra insieme con Alessandro Nicosia hanno voluto prendere in parola l’artista, sin dal titolo, Dalà­, un artista un genio, che ripete l’autoincoronazione del 1920. L’antologica propone in realtà  un percorso sfaccettato intorno alla figura del pittore, tra debiti nei confronti della tradizione e i complessi, tormentati rapporti con le avanguardie storiche; tra i celebri contatti con il cinema sperimentale di Buà±uel (Un chien andalou) e con il noir di Hitchcock (Io ti salverò), ma anche il teatro di Luchino Visconti (per il quale nel 1948 a Roma firmerà  le scenografie di Rosalinda, o come vi piace), fino al progetto per un cartone animato per Walt Disney o a quello per tre bottiglie di Rosso antico. 
Tanti Dalà­, insomma, e non un solo “genio” nell’esposizione che si apre con il primo piano di quei baffi a manubrio che diventeranno – insieme con le grucce, l’elefante berniniano dalle zampe filiformi e gli orologi flosci a misurare un tempo sempre più liquido – gli emblemi della sua pittura. Ma anche gli attributi di un personaggio che, in anticipo rispetto all’attitudine performativa e autobiografica di artisti come Andy Warhol, Luigi Ontani o Cindy Sherman, farà  (anche) del proprio corpo un’opera totale. Ed è lo sguardo beffardo, ironico, ammaliante del pittore istrione a introdurre lo spettatore in una doppia parete di grandi foto realizzate da Philippe Halsman che conduce all’ambiente in cui sono le testimonianze video e audio a dare conto dell’attitudine drammaturgia del pittore surrealista.
L’avvio della mostra alla pittura di Dalà­ – un’esposizione composta solo di opere di sua mano, senza l’ausilio dei molti multipli presenti sul mercato – è quindi nel segno dell’Italia. Il tour comprende, oltre all’Autoritratto raffaellesco («forse un giorno sarò considerato, senza essermelo prefisso, il Raffaello della mia epoca» scrive nel 1949), la Madonna di Port Lligat del 1949 (Collezione Haggerty Museum of Art, Marquette University, Milwaukee) in cui è Gala, la moglie/madre/musa/modella, a incarnare la Vergine in un quadro debitore tanto dell’Urbinate quanto di Piero della Francesca; ma anche la serie originale delle illustrazioni per il libro sulla Vita di Cellini scritto dallo stesso scultore manierista di cui Dalà­ ammirava l’impeto romantico oltreché certe soluzioni formali, come testimoniato dalla Gea della celebre saliera citata nella figura femminile del minuscolo, conturbante Spettro del sex-appeal. 
A chiusura ideale di questo legame conflittuale con l’Italia dei grandi maestri, i tre omaggi a Michelangelo in altrettante tele del 1982 che – attraverso una pittura più libera e mossa (vicina al vigore espressionista degli anni Ottanta) rispetto a quella analitica e fredda della sua tavolozza tradizionale – reinterpretano e disossano le sculture del Giorno e della Notte nelle cappelle medicee ma anche la Pietà  di San Pietro in Vaticano.
Artista anticonformista e anacronista, tanto da rifiutare le suggestioni della scultura africana cara alle avanguardie storiche in favore del Rinascimento, Dalà­ del secolo d’oro dell’arte italiana non prende quindi a modello la fase apollinea, quanto la crisi manierista di cui anche Raffaello, del resto, è stato protagonista. La scoperta nel 1948 delle sculture di Bomarzo, testimoniata da un filmato in mostra dell’Istituto Luce, non fa che confermare nella mente di Dalà­ l’origine antica e italiana dei suoi miti surrealisti, tra i mostri, le meraviglie e le metamorfosi dell’arte del Cinquecento.
Non è solo con e contro l’Italia degli antichi maestri che si dibatte il pennello affilato dello spagnolo, tecnicamente più vicino al grado di precisione di un fiammingo che all’aurea sintesi della classicità . Tra i moderni, nel suo panorama affollato spicca Giorgio de Chirico la cui ombra, ora solo accennata, ora evidente, si ritrova in molti dei dipinti che costituiscono la sala centrale della mostra: la sezione sugli anni decisivi del suo lavoro, dopo il viaggio del 1926 a Parigi e la successiva adesione al gruppo dei surrealisti di Breton ed à‰luard, fino all’abiura del 1934. Ignaro degli inviti dei surrealisti che vedevano in lui un faro, de Chirico, il “Grande Metafisico”, il “Pictor optimus” come amava definirsi, bollò Dalà­ come «l’antipittore per eccellenza». Eppure i contatti tra i due sono più d’uno. E innumerevoli gli inserti di scorci metafisici, di manichini, persino un treno in un quadro del 1928, che lo spagnolo inserì nei suoi dipinti secondo un processo di citazione, appropriazione e rielaborazione che appare come la cifra più moderna del suo lavoro.


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