by Editore | 18 Marzo 2012 15:54
Sono uno spioncino aperto sull’anima dei potenti nei loro momenti di noia più soffocante: gli scarabocchi sulla carta dei Presidenti. Ronald Reagan disegnava la caricatura di se stesso, mentre sopportava Maggie Thatcher.
Eisenhower, generale per sempre, tratteggiava navi da guerra e soldati. Johnson, equivoche figure con tre facce e Kennedy preferiva le parole: l’ultima che scarabocchiò prima di morire fu “poverty” e poi partì per Dallas. Sono i doodles dei potenti, i graffiti inconsci che presidenti americani, come tutti noi, tracciano mentre ascoltano o fingono di ascoltare e che aprono piccole finestre sul bambino prigioniero dentro ogni adulto.
La collezione di scarabocchi, doodle in inglese, cioè sciocchezzuole, stupidaggini, che Margaret Thatcher diligentemente raccolse e conservò dopo i suoi incontri con il presidente Reagan, è diventata pubblica. Si è aggiunta all’album ormai pluricentenario di geroglifici, faccine, silhouette, figure astratte o geometriche, lettere e parole senza significato, “asemiche” dicono i linguisti, che tutti scarabocchiamo se abbiamo carta e penna sotto mano, magari durante una telefonata particolarmente verbosa o attendendo l’operatore del call center dopo ore di penitenza e musichetta in scatola.
Leonardo Da Vinci era uno scarabocchiatore instancabile, Kafka disegnava uomini affranti e ovviamente depressi, Borges coppie di elegantissimi milongueros allacciati nel tango. Sembrano segnali di distrazione, della mente che vaga e cerca rifugio in qualche nascondiglio del subconscio, ma ci sono ormai ricerche e studi che dicono il contrario: che ad andar via con la testa e disperdersi in disegnini che nulla hanno che fare con ciò di cui si parla o con il lavoro che si sta facendo, è spesso il più attento, il più intelligente e colui che assorbirà meglio.
Ronald Reagan, da attore ossessionato dai primi piani e dalla crudeltà della cinepresa, prediligeva facce profili, cammei, caricature di volti umani. Nelle carte che la Dama di Ferro, con il suo divertito consenso, portava via dai loro vertici, ci sono una sorta di Popeye con la bazza e la pipetta fra le labbra che ricorda i comici da vaudeville, torsi nudi di uomini nerboruti (immagine che la virilità politicamente muscolare di Madame Thatcher sempre ansiosa di menar le mani e fare a botte forse gli suggeriva), occhi spalancati, un po’ biblici un po’ massonici e un garbatissimo autoritratto appena accennato, eppure riconoscibilissimo nel ciuffo da Brylcreem anni ‘50, gli anni di Hollywood per lui. Era un modo per concentrarsi, dicono oggi coloro che assistevano a quegli incontri, spesso degenerati in discussioni molto aspre dietro la «grande amicizia» ufficiale, per sfuggire a quella “dominatrix” imperiosa. C’è un profilo, tra i doodle di Reagan, di un volto d’uomo con l’occhietto sbarrato e chiuso dentro una sorte di involucro, di bolla, che sembra chiedere aria.
Clinton era uno scarabocchiatore instancabile di strani apparecchi e macchinari – mai donne, che pure occupavano un cospicuo locale nel suo appartamento cerebrale – e i suoi consiglieri temevano che le loro verbose presentazioni, le analisi e i papiri scorressero via su di lui, senza effetto. Ma alla fine, quando “Bubba” Clinton staccava finalmente la penna dal foglio, dalle cartelline, dalla carta intestata del “President” che lui imbrattava, si alzava e diceva: «Ho capito tutto, si farà così». E aveva davvero capito, prima di prendere la decisione.
Herbert Hoover, il presidente della Grande Depressione, era ingegnere di formazione e si rifugiava in complesse figure geometriche tridimensionali, tetraedri sui lati si tetraedri, proiezioni e assonometrie, castelli perfetti sulla carta mentre i castello reale dell’economa attorno a lui si frantumava. In compenso il suo successore, Franklyn Delano Roosevelt aveva un’inspiegabile passione per disegnare sovrappensiero etichette di vini e liquori, nuovi documenti, bolle ed editti. L’unico ad averci lasciato qualche graffito umano fu Rutheford Hayes dal quale ci è arrivato un tenero, e affettuosissimo profilo della bella amata, un cammeo su carta ornato di boccoli.
La tentazione di leggere questi documenti storici molti minori in chiave psicoanalitica è fin troppo facile e rischia di portare a conclusioni sbagliate, da salotto televisivo prima della pubblicità . Quello che i ricercatori si azzardano a dire, confortati da lavori epidemiologici sempre più numerosi, è che l’insopprimibile istinto a scarabocchiare mentre si ascoltano altri non è affatto un segnale di distrazione, ma al contrario di concentrazione e di attenzione. Jackie Andrade, autore di un inavvicinabile studio sulla “Psicologia cognitiva”, le cui lezioni provocano montagne di scarabocchi fra gli studenti, ha condotto esperimenti che dimostrano come i doodlers siano gli ascoltatori migliori e più attenti. E’ una semplice valvola di sicurezza che il cervello apre quando la pressione della noia si fa troppo forte. Un impaziente e un po’ svagato come Ronald Reagan, che pretendeva dalla Cia un solo foglietto per il mattinale sullo “Stato del Mondo”, sopravvisse alla Thatcher scarabocchiando. Quei suoi disegnini sembrano messaggi in bottiglia per il resto del mondo: aiuto! Salvatemi!
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