COSàŒ LE GENERAZIONI DIVENTANO EPICA

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Nell’incipit del nuovo romanzo di Marcello Fois, Nel tempo di mezzo (Einaudi), il protagonista, appena arrivato a Cagliari dal Friuli dove è nato e ha vissuto in orfanotrofio fino all’età  di ventisette anni, rivolgendosi all’impiegato di un ufficio della capitaneria di porto non riesce a pronunciare per intero il suo nome: Vincenzo, riesce a dire, ma il cognome – Chironi – non viene fuori. 
Marcello Fois sa che gli uomini sono strutturalmente fratti, spezzati in varie parti che di rado e sempre a fatica riescono a tenere insieme. Sa che per ricucire tra loro i pezzi di un’esistenza ci vogliono anni da attraversare in lungo e in largo, e che spesso una vita sola non basta perché per provare a dare consistenza alle cose servono intere generazioni e servono i racconti che a quelle generazioni danno la parola. 
Fois sa dunque che a causa di questa loro natura frantumata la parola degli uomini è incompleta e che tra il nome proprio – ciò che ci individua e ci sostanzia – e il cognome – ciò che ci collega a una storia familiare ma ancora di più alle epoche, al tempo irrisolvibile – c’è un luogo che è una cesura, qualcosa che rischia di essere un vuoto e che ambisce, se qualcuno se ne prenderà  cura, a trasformarsi in una trama. 
Nel tempo di mezzo – che segue di tre anni Stirpe, il romanzo in cui il destino ramificato della famiglia Chironi conosce la sua prima messinscena – racconta l’apprendistato alla vita di Vincenzo a partire dal 1943, dunque al centro della seconda guerra mondiale, tenendo però conto del fatto che in Sardegna la guerra è un rumore attutito («come ascoltare dei vicini che litigano, che rompono i piatti»), perché quell’isola – quel miocardio piantato nel Mediterraneo – è sistole e diastole, trattiene e allontana la percezione del mondo. È un altrove che resta irraggiungibile non soltanto per chi arriva da fuori ma persino per i sardi stessi.
Vincenzo – uno che della solitudine sa tutto –, guidato da un cieco che si fa a sua volta guidare da un capro, raggiunge Nuoro (anzi, e non è semplicemente una questione di accenti ma di concezione del mondo, Nùoro). Lì incontrerà  due sconosciuti indispensabili: suo nonno Michele Angelo, il fabbro che ha cercato di torcere il mondo con le mani, e Marianna, la zia che parla con i vivi e con i morti. E mentre la guerra finisce, dal cielo spariscono i Messerschmitt tedeschi, si sceglie tra monarchia e repubblica e sulle strade compare una Guzzi 500 Falcone, Vincenzo, sempre estraneo, se ne va a combattere contro gli insetti bruciando legioni di cavallette, disinfestando nubi di zanzare: per tenere lo spazio pulito, conficcare lo sguardo nella materia del tempo e scorgere, sulla linea dell’orizzonte dove se ne sta accampato il futuro, la forma della sua origine. 
Il matrimonio con Cecilia sarà  infatti per Vincenzo una condivisione tanto inaspettata quanto arcaica, una conoscenza delle cose che potrebbe essere il bene, che sta per essere il bene, ma che – come spesso accade – si trasforma nel suo opposto. 
Il 24 dicembre 1959 si compone il diagramma della fine di un amore – l’inerzia, lo stillicidio, il gelo cupo, tutto il patrimonio di parole che si risolve in insulti, in rabbia, in strappi; la coscienza imprecisa e insostenibile che quanto è stato acqua adesso è sete. A risaltare, ora, è una consapevolezza: che la direzione verso la quale Vincenzo ostinatamente si è mosso, e che solo Cecilia comprende e gli concede, consiste di cinque lettere in stampatello maiuscolo: la parola (o meglio l’azione) PADRE.
E dunque, tra genitori introvabili e figli impossibili, le generazioni continuano a materializzarsi, la stirpe si allunga ferrosa e la scrittura – che in Fois, nel dare luogo a un racconto, interroga se stessa, la propria morfologia, il proprio senso – si modifica facendo suo un impulso polifonico e poi un’improvvisa intensissima prima persona che conduce fino al 1978. 
Come il protagonista di Durante l’estate di Olmi, l’appassionato di araldica che regala passato alla gente incontrata per strada inventando genealogie immaginarie, Fois si fa carico di qualcosa che oggi, nella vita fratta, ha le proporzioni della sfida: dare forma a un epos, prendere l’umano e cantarlo, conferire esistenza agli individui e alla loro storia attraverso le parole. Non per gioco o per caso ma per fare, delle proprie percezioni, qualcosa di buono. Perché, scrive Fois: «La maledizione è percepire. Peggio che sapere. Peggio che ignorare».
Per percorrere il tempo di mezzo in cui ognuno di noi è immerso e riuscire a collegare finalmente il nome al cognome, dunque per evadere dal nulla e penetrare nel mondo, continua a servirci quel ponte di corda che chiamiamo letteratura. Il ponte costruito da Fois con questo romanzo è una struttura salda e oscillante, integra e vibratile. Ha in sé una selvatichezza animale e una misura vitruviana: la qualità  sostanziale che appartiene a chi sa pensare il mondo in forma di frasi, a chi si prende cura del vuoto e lo trasforma in trama.


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