COME USCIRE DAL CONFLITTO

by Editore | 25 Marzo 2012 16:17

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In maggio, al vertice della Nato che si terrà  a Chicago, si dovrà  decidere il futuro di quel conflitto.Quando e come ritirarsi, senza troppi danni e con il massimo di dignità . L’obiettivo non è certo facile da raggiungere. Si tratta di lasciarsi alle spalle un governo di cui fidarsi e soprattutto nelle condizioni di sopravvivere. Barack Obama aveva previsto la partenza nel 2014. Ma l’afgano Karzai adesso ha fretta o finge di averla per calmare i suoi, dopo la strage di Kandahar compiuta da un sergente americano. Vorrebbe anticipare la data all’estate dell’anno prossimo. Perlomeno lo dice. Esige anzitutto ad alta voce che gli americani cessino al più presto di promuovere azioni armate e restino nelle loro caserme. Soprattutto niente incursioni notturne che terrorizzano la popolazione. Vasto e complicato programma. 
Per ora nulla è stato ancora deciso di preciso. Gli americani, che hanno novantamila uomini sui centotrentamila dell’Isaf (International Security Assistance Force), sono stretti tra i nemici talebani e gli alleati afgani. I primi virtuali interlocutori ostili, i secondi interlocutori ufficiali infidi. Così i soldati sul campo (come capitava al bersagliere della Garibaldi colpito a morte e ai suoi cinque compagni feriti) devono difendersi dalle aggressioni dei talebani ma anche diffidare degli alleati, che hanno armato e addestrato. Né hanno l’aperto sostegno della popolazione, stretta dalla morsa della guerra civile, che li considera degli occupanti, di religione e lingua diverse. La situazione non pone più il problema di vincere o meno il conflitto ma di studiare il modo di uscirne, appunto con dignità  e senza eccessivi danni. Il bersagliere della Garibaldi ucciso e i suoi compagni feriti partecipavano a quell’impresa. Non era e non è una missione da poco. Chi la compie sul terreno merita tutto il nostro rispetto.
L’attacco all’avamposto italiano nella provincia occidentale di Farah potrebbe anche essere stata una reazione locale ai gravi episodi verificatisi di recente in altre regioni afgane. Episodi che hanno avvelenato ancor più i rapporti tra la Nato, in particolare tra gli americani, e la popolazione. E tra Washington e il governo locale. Il fatto di sangue avvenuto vicino a Kandahar ha provocato la collera del paese, ha mandato all’aria i colloqui con i talebani che stavano per cominciare nel Qatar, e hanno costretto l’instabile presidente Karzai ad assumere posizioni intransigenti nei confronti dei protettori americani. Un vero disastro, perché Washington ha subito i colpi dell’alleato e ha perduto almeno per ora l’occasione di trattare con i nemici. Una doppia sconfitta.
La strage avvenuta, alcune domeniche fa, vicino a Kandahar (16 civili uccisi nel sonno, dei quali nove bambini) è stata attribuita dagli americani a un loro militare uscito di senno, insomma a un “incidente psichiatrico”, e non a un calcolato atto di ostilità  contro la popolazione afgana. È stata l’azione isolata di un sergente di 38 anni, logorato dai lunghi e ripetuti soggiorni in Iraq e poi in Afghanistan, e colto da un raptus omicida che l’ha spinto in un villaggio non distante dal suo accampamento, dove avrebbe sparato all’impazzata uccidendo gente inerme che dormiva. Nelle guerre un soldato, anche il più disciplinato, può perdere la testa e uccidere senza badare alle vittime. È tragico, ma capita. Le autorità  americane hanno sostenuto questa tesi, battendosi il petto, hanno chiesto scusa, hanno impacchettato il sergente autore della strage e l’hanno rispedito negli Stati Uniti, dove sarà  giudicato, verrà  forse condannato a morte, o finirà  la vita in un manicomio criminale. 
Ma gli afgani non condividono né la tesi, né le decisioni americane. Sostengono che la strage dei sedici innocenti è stata compiuta deliberatamente da più soldati e vogliono che il sergente omicida venga giudicato da un tribunale afgano, poiché il fatto è avvenuto sul loro territorio. Gli americani inorridiscono all’idea che questo possa accadere a qualche loro soldato nel futuro. E comunque hanno messo il sergente assassino di Kandahar al sicuro, in patria. L’eccidio dei sedici afgani inermi è avvenuto dopo altri episodi che hanno gonfiato la collera popolare. La fotografia dei soldati americani che urinavano su dei cadaveri di talebani non era certo edificante. 
Ben più grave è stato giudicato il fatto che soldati americani abbiano appiccato il fuoco, abbiano bruciato «la parola di Dio», cioè volumi del Corano, che circolavano in una prigione e che potevano contenere messaggi non proprio religiosi. La Casa Bianca si è scusata. Ma i mea culpa non sono serviti a molto. Non hanno attenuato i rancori nei confronti degli «occupanti». Rancori che non risparmiano i soldati addestrati e armati dagli istruttori occidentali della Nato. Di recente dei soldati afgani hanno ucciso i loro istruttori francesi. Non tutti gli avvenimenti, nelle guerre, si distinguono per la loro razionalità . In quella afgana, dove insieme a tanti altri, dal 2004, sono morti cinquanta italiani, l’irrazionale raggiunge livelli insoliti, per la nostra epoca. Bravi i bersaglieri che in quella situazione assolvono comunque il loro compito.

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