Come tagliare la spesa per non alzare le tasse
Che fine ha fatto il piano taglia- spese annunciato da Piero Giarda all’inizio dell’anno? Il ministro aveva ammesso che non sarebbe stato « un compito facile » . Ma trascorsi ormai tre mesi è lecito domandarsi quali risultati abbia dato la spending review, ossia la revisione della spesa pubblica che avrebbe dovuto consentire una « riduzione chirurgica » delle uscite statali. E la risposta, purtroppo, è ancora molto deludente. Secondo il ministro dello Sviluppo Corrado Passera, « per far quadrare i conti » sarà inevitabile ( ha usato il termine « automatico » ) aumentare di nuovo l’Iva. Altre tasse, dunque. Altre tasse, dopo l’inasprimento delle aliquote massime dell’Irpef, l’incremento delle addizionali locali, la reintroduzione dell’imposta sugli immobili, il rincaro delle accise sulla benzina e un primo aumento dell’Iva. Altre tasse, e nessun taglio come si deve.
Poche settimane fa il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, ha confermato le previsioni del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, pronosticando per la pressione fiscale il rapido superamento della soglia del 45%. Saremo i più tassati d’Europa dopo danesi, belgi e svedesi, però con un livello dei servizi decisamente inferiore.
E la recessione, diciamo la verità , c’entra fino a un certo punto. Il fatto è che un governo così determinato a intervenire sulle pensioni e sull’articolo 18 non lo è stato finora altrettanto nei confronti di una spesa pubblica inefficiente e parassitaria.
Spiega uno studio edito dal Mulino per la fondazione Astrid e curato da Luigi Fiorentino, che nel decennio «orribile» (definizione di Bankitalia) durante il quale la ricchezza prodotta procapite è diminuita in termini reali di quasi il 5%, le uscite correnti al netto degli interessi sono salite dal 37,6 al 43,2% del Pil. Raggiungendo il 51,9% se si considera anche il costo del nostro enorme debito pubblico e i magri investimenti statali. La Cgia di Mestre ha calcolato che in quel decennio la spesa corrente è cresciuta di 142 miliardi di euro. La macchina pubblica, insomma, ingoia ormai più di 800 miliardi l’anno.
La Ragioneria generale dello Stato dice che i nostri costi di «amministrazione generale» rappresentano il 18,4% del totale delle uscite, sei punti più della Germania. Se soltanto spendessimo come i tedeschi per far funzionare la burocrazia, risparmieremmo una quarantina di miliardi l’anno. Il triplo rispetto a quanto Giarda prevede di ottenere, nella migliore delle ipotesi, dalla spending review.
Vero, verissimo: non è un compito facile. Sappiamo che c’è molta sabbia negli ingranaggi, che ci sono i problemi sindacali, gli ostacoli delle autonomie, le lobby che frenano. Ma anche per questo ci vorrebbe più coraggio.
Lo studio Astrid rivela, per esempio, che nel 2009 le convenzioni Consip non arrivano al 2% della spesa per beni e servizi, quando è dimostrato che alle pubbliche amministrazioni il metodo delle aste online garantisce una economia media del 20%. E siccome lo Stato spende ogni anno per questo capitolo 140 miliardi, una decina almeno se ne potrebbero facilmente risparmiare utilizzando in modo serio il sistema della centralizzazione informatica degli acquisti.
C’è poi un tema caro all’economista Mario Baldassarri: i 44 miliardi di trasferimenti e sussidi alle imprese private e pubbliche. Soldi che in gran parte non accrescono l’efficienza aziendale né la concorrenza. Da anni si parla di metterci mano, ma nessuno lo fa. Eppure sarebbe sufficiente, dopo aver eliminato quelli palesemente inutili, trasformare tutti i sussidi rimanenti in detrazioni fiscali a vantaggio dell’occupazione per limitare il salasso. Ed eliminare molti abusi.
Una parte consistente della spesa pubblica è in mano alle Regioni: oltre 200 miliardi l’anno. Metà se ne va per la sanità , con differenze enormi e giustificate in troppi casi solo da corruzione e malaffare, che dovevano essere livellate con l’applicazione dei «costi standard». Forse l’unico aspetto virtuoso del cosiddetto federalismo fiscale. Finita ora sul binario morto la pratica federalista, però, lo stesso destino sembrano aver subito anche i costi standard. E non si capisce perché.
L’altra metà della spesa locale serve a far marciare tutto il resto, comprese quelle macchine ipertrofiche e sprecone che sono diventate le amministrazioni regionali. Ogni siciliano spende 353 euro l’anno per mantenere gli oltre 20 mila dipendenti della Regione: e senza contare i 27 mila precari spesso stipendiati a vuoto. Ogni lombardo, invece, di euro ne spende 21: un diciassettesimo. Differenza che non ha nulla a che vedere con la maggiore autonomia statutaria della Sicilia. Anche perché, limitandoci alle Regioni ordinarie, i 21 euro procapite della Lombardia si confrontano con i 173 del Molise. E se soltanto si decidesse di adeguare al parametro della Lombardia le spese per il personale di tutti questi enti, perfino escludendo quelli a statuto speciale, il risparmio sarebbe di oltre 600 milioni l’anno. Esattamente quanti se ne potrebbero racimolare applicando lo stesso parametro al costo dei vari consigli regionali. Economie totali: 1,2 miliardi. Somma alla quale si potrebbero aggiungere risparmi ancora più significativi sugli altri costi della politica. Da anni, per esempio, si discute della riduzione del numero dei parlamentari. Si dovrebbe quindi intervenire sul costo abnorme degli organi costituzionali come anche sul meccanismo di finanziamento dei partiti, sfuggito a ogni controllo.
Per non parlare delle Province, che ci costano una quindicina di miliardi l’anno e che tutti, a parole, dicono di voler abolire. Hanno oltre 4.200 amministratori e circa 50 mila dipendenti. Il decreto salva Italia le aveva private delle funzioni, derubricandole a organi non elettivi, senza giunte. Una rivolta dei diretti interessati lo ha però obbligato a fare un passo indietro, demandando il taglio a una futura legge. Il che ha dato una boccata d’ossigeno agli oppositori. Il presidente dell’Unione delle Province, Giuseppe Castiglione, ha rilanciato proponendo di eliminare solo gli enti che si sovrappongono con le città metropolitane, riducendone così il numero a 60. Mentre la resistenza si va organizzando, in preparazione del prossimo scontro. All’inizio di maggio si dovrebbe votare per il rinnovo delle Province di Ancona, Como, Genova, La Spezia e Vicenza. Per evitarlo, il governo ha previsto di nominare commissari gli attuali presidenti, in attesa della legge che dovrà far sparire le giunte. «Mi rifiuto di farlo», è insorto il presidente della Provincia di Genova, Alessandro Repetto. Ed è scoppiata la protesta, cui si è unito anche il Sinpref, ovvero il sindacato dei funzionari prefettizi.
Va da sé che una spending review seria non potrebbe non prendere in esame il capitolo più consistente: i soldi che servono a pagare 3 milioni e mezzo di dipendenti. Fra il 2000 e il 2008 la spesa per le retribuzioni lorde dei dipendenti pubblici è lievitata del 40%, quasi il doppio dell’inflazione. La paga media procapite ha registrato un incremento del 36,4%: il triplo, in termini reali, degli stipendi privati. Mentre il numero dei dipendenti pubblici, nonostante il blocco del turnover e l’informatizzazione, è ancora salito del 2,5% a causa delle assunzioni a tempo determinato. Ed è chiaro che il problema dei problemi è questo.
Come affrontarlo? Qualche anno fa il senatore Nicola Rossi aveva proposto provocatoriamente i prepensionamenti di massa. Per ogni dieci esodi si sarebbero potuti assumere due giovani, con un risparmio complessivo assicurato del 20%. Mancò poco che lo sbranassero, da destra a sinistra. E oggi un’idea del genere, per quanto tecnicamente niente affatto peregrina, sarebbe ancora più improponibile. Ma qualcosa bisognerà fare. In un momento in cui si chiede ancora più flessibilità in uscita a tutti i lavoratori, è accettabile che tre milioni e mezzo di dipendenti pubblici conservino immutato il privilegio dell’inamovibilità ?
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