Codici culturali in forma di abiti
Due notizie tra innumerevoli altre – una tratta dall’attualità , l’altra da un passato non troppo lontano – ci vengono incontro come gangli pulsanti a segnalare, in un significativo arco temporale, alcuni aspetti del nuovo sistema globale della moda tanto nelle sue composite declinazioni storico-culturali, economiche e ambientali quanto nella trasformazione delle traiettorie discorsive e interpretative che, dalla fine degli anni Ottanta, lo hanno riguardato come specifico campo di studi e di ricerche.
Nei giorni scorsi l’Organizzazione Mondiale del Commercio ha finalmente convalidato la richiesta di detassazione per l’Europa di 75 prodotti pachistani, presentata dall’Unione Europea nell’ottobre 2010, con un’applicazione estesa al 31 dicembre del 2013. La proposta riguardava soprattutto il settore del tessile e dell’abbigliamento e la misura era stata studiata per sostenere il Pakistan a seguito delle alluvioni che l’avevano duramente colpito in quel periodo e che ancora di recente hanno tormentato il suo popolo. Dal Pakistan l’Europa importa ogni anno T-shirt, cappotti, biancheria intima, tessuti di cotone in quantità non inferiore al 30% delle sue esportazioni, pari a una cifra di tre miliardi di euro di beni. La misura economica ha tardato a essere applicata perché varie nazioni concorrenti, dal Brasile all’India, dall’Argentina al Bangladesh, all’Indonesia, hanno presentato ricorso all’Omc preoccupate dall’ipotesi che il Pakistan potesse avvantaggiarsi troppo di tali benefici.
Il fatto non solo ci mostra gli attori emergenti della crescente e aspra competizione che caratterizza la produzione di abbigliamento e il loro posizionamento sulla mappa dei mercati globali, ma suggerisce anche una comune vulnerabilità . All’ombra dell’azione solidale nei confronti del Pakistan, noi tutti siamo testimoni a ogni passaggio stagionale della sofferenza che segna ovunque il nostro rapporto con la terra. Ciò che la notizia tace, ma lascia trasparire in filigrana, è che l’urgenza ambientale è problema vivo e condiviso, un problema che tocca da vicino l’attuale sistema globalizzato della moda nelle aree della produzione, come in quelle del consumo.
Le peripezie di un copricapo
Facciamo un salto indietro. Durante un periodo trascorso a Thamel, quartiere turistico di Kathmandu, nei primi anni ’90, l’antropologa Sharon Hepburn, aveva registrato, rispetto a una sua precedente visita, una singolare serie di novità che investivano la storia di un copricapo: il Thamelcloth hat. Nel 1986, l’antropologa aveva avuto testimonianza che il cappello dalla calotta piatta e dai bordi sostenuti a mo’ di corona era in vendita nei negozi di Thamel, dove veniva acquistato solo dai turisti, convinti di indossare un accessorio radicato nella tradizione nepalese. In realtà nessun abitante di Thamel lo aveva mai considerato tale, né indossato. Al suo ritorno nel paese, la studiosa scopre che le cose sono cambiate: il copricapo è divenuto un oggetto di moda anche per i nepalesi e in particolare per gli appartenenti alla casta hindu. Nello stesso periodo, l’immagine di questo stesso accessorio è proposta su alcune riviste di moda nordamericane come esempio di etno-chic. Cosa era avvenuto?
L’iniziale gradimento dei turisti occidentali per questo copricapo realizzato in un tessuto ispirato alla tradizione himalayana e butanese – anche se in realtà filato in India per conto delle fabbriche della Kathmandu Valley, non esenti da intensivi fenomeni di sfruttamento lavorativo – era motivato dalla semplicità con cui incarnava l’esoticità del luogo e della sua cultura. Tuttavia, l’accessorio non solo soddisfaceva il gusto occidentale, ma, per via della sua supposta qualità artigianale, si faceva testimonianza della solidale presa di posizione dei fruitori occidentali contro la violazione dei diritti umani tanto dei lavoratori sfruttati quanto dei tibetani rifugiati in Nepal.
A un ben diverso sentimento rispondeva, invece, l’appropriazione dell’abbigliamento e degli accessori in Thamelcloth da parte dei nepalesi di Kathmandu. Sebbene influenzato dalle forme vestimentarie del luogo, molteplici ed erratiche per via delle mutazioni stilistiche dovute alle diverse ondate migratorie che avevano attraversato nel tempo la regione himalayana, il guardaroba in Thamelcloth veniva immediatamente associato dai nepalesi allo stile dei turisti, considerati alla stregua di una realtà castale dotata di una propria immagine vestimentaria. Associare la propria apparenza alla casta dei turisti significava per gli abitanti di Kathmandu rispondere al desiderio di sentirsi «alla moda» o, meglio, di aderire al sentimento del presente rinnovando attraverso l’altro da sé l’immagine, pur sempre suscettibile di cambiamento, di uno stile vestimentario più o meno autoctono. Un singolare cortocircuito, quindi, innescato da mutue proiezioni idealizzanti. Il caso è stato interpretato da Hepburn come esempio di ciò che avviene quando culture diverse si confrontano in una zona permeabile di contatto in cui identità diverse – diasporiche e in divenire – danno vita nella pratica quotidiana a fenomeni di creatività immaginativa e di «autenticazione culturale» che ridisegnano la loro apparenza assieme alla biografia sociale degli oggetti.
Traiettorie critiche
Proprio al sistema globalizzato della moda Simona Segre Reinach ha dedicato lo stimolante Un mondo di mode. Il vestire globalizzato, di recente pubblicato da Laterza (pp. 159, euro 18). Le riflessioni iniziali che imbastiscono l’intero discorso della antropologa della moda sono immediatamente rivolte alla necessità di riconsiderare il ruolo dell’Europa e dell’Occidente in relazione alla fitta rete di scambi culturali del vestire globalizzato. Non si tratta – sottolinea l’autrice rifacendosi al significativo libro di Dipesh Chakrabarty – di «provincializzare l’Europa», procedendo a una ingenua sostituzione di un continente a un altro di fronte alla crescente affermazione di nuove culture sartoriali ma, piuttosto, di mettere in discussione da un’ottica postcoloniale e altermoderna il costrutto ideologico vestimentario che tra Ottocento e Novecento ha arbitrariamente opposto l’Occidente al resto del mondo.
Quella indicata dalla studiosa è infatti una traiettoria critica che, scardinando non pochi luoghi comuni, individua nel nuovo linguaggio polifonico della moda globale dinamiche creative e interpretative capaci di dar conto di una «visione processuale, in cui la società è intesa nel suo cambiamento, in un movimento creato da varie forme di agentività » tanto nella sfera della produzione e delle sue rappresentazioni, quanto nelle pratiche del consumo, materiali o immaginative che siano. Nell’ultimo decennio infatti la teoria e il sentimento eurocentrici sull’origine della moda sono stati sottoposti a revisione e ridimensionati da nuovi studi antropologici, che hanno messo in luce da un lato le modalità e le circostanze storiche di diffusione globale della moda occidentale e dei processi di «appropriazione-traduzione dei suoi codici», dall’altro l’insorgenza di forme creative locali che si costituiscono e si danno statuto rappresentativo in modo più o meno indipendente dalle logiche occidentali. Situarsi criticamente all’intersezione di queste due traiettorie ha significato per molti studiosi aggiustare l’orientamento dell’approccio teorico rivolto al fenomeno moda e alle sue configurazioni di potere lavorando alla decostruzione della retorica egemonica che ha caratterizzato il suo esclusivo registro narrativo.
Una pluralità di forme
Ma come liberare la pluralità delle istanze discorsive e rivelare snodi e passaggi tra le persone e le nazioni? In sintonia con le ricerche di Sara Grace Heller, Segre sottolinea l’inutilità dell’attribuire l’origine del fenomeno moda a un unico periodo storico e a un unico luogo, come pure dedica sottili riflessioni a decostruire la simmetrica rivalità tra moda e costume, due «idealtipi stereotipati», più che autentiche opposizioni, poli semantici funzionali alla costruzione dell’equivalenza tra moda e modernità occidentale, quale condizione rivelatasi necessaria al consolidamento della stessa prospettiva eurocentrica.
«Molti studi specifici – scrive l’autrice – basati su fonti storiche e iconografiche hanno dimostrato come ci fosse ‘moda’, cioè cambiamento più o meno veloce nelle fogge, anche in epoche precedenti ai secoli XIV e XV, periodo in cui si colloca di solito l’origine del fenomeno, e anche in luoghi diversi dall’Europa. Il cambiamento è presente in entrambi i registri, quello della moda e quello del costume, comunque li si voglia definire. La totale fissità non esiste, anche se il cambiamento può rispondere a logiche diverse». Lungo questa traiettoria, il nuovo linguaggio della moda globalizzata va ben oltre la contemplazione tanto delle forme della moda occidentale con le sue dinamiche di conquista dei nuovi mercati quanto delle diverse grammatiche del vestire locale. Esso si rivela piuttosto come un fenomeno culturale in movimento agito da una moltitudine di persone che, singolarmente e comunitariamente, dagli ambiti più disparati alle latitudini più remote, sia pure in modi diversificati e ineguali, accede alla pluralità delle forme vestimentarie e agli immaginari che le sottendono. Modalità vestimentarie inedite e innovative vengono declinate secondo un pattern a macchia di leopardo che rimescola e trasforma la «tradizionale» figurazione cartografica del «mondo vestito», ora variando ora rovesciando i rapporti di forze che si sono imposti successivamente alla Rivoluzione industriale e si sono vieppiù consolidati con il capitalismo e il colonialismo.
Non desti meraviglia se negli ultimi anni «energia, innovazione e creatività sembrano provenire – sottolinea Segre – da luoghi come il Brasile, la Cina e l’India … mentre la tradizione e il recupero della storia sartoriale sono appannaggio dei vecchi centri europei». E, tuttavia, la vera svolta culturale che oggi sembra fare la sua comparsa tra i diversi linguaggi vestimentari impegnati nei processi di emancipazione dalle storie sartoriali manifatturiere e commerciali, che hanno caratterizzato con differenze e disuguaglianze il rapporto tra l’Occidente e il resto del mondo come tra il Nord e il Sud, va sempre più configurandosi con le fattezze di un abito concettuale: la moda e le sue forme possono essere pensate come spazio privilegiato di traduzione culturale.
A questo tema è dedicato uno dei capitoli più suggestivi del volume di Patrizia Calefato La moda oltre la moda, pubblicato da Lupetti, nella collana Linguaggi virali diretta da Eleonora Fiorani (pp. 190, euro 18). L’espressione «traduzione culturale», riferita alla moda intesa nel suo significato di raffigurazione sociale del corpo rivestito, viene qui considerata da Calefato «sia nel senso in cui una cultura subalterna viene forzatamente trasposta entro una cultura dominante, sia nel senso della costruzione di uno spazio di interazione, ‘un terzo spazio’ … tra le culture». Prendendo in esame le tesi di Homi Bhaba e di Rey Chow, la studiosa individua nella moda «come cultura visuale e di massa un sistema che rende in modo esemplare questa ‘terza’ dimensione». Uno spazio intermedio che depotenzia la fascinazione orientalista e permette una rinegoziazione comunicativa tra le posizioni dell’Occidente che guarda e del «non-Occidente» che viene guardato; come pure un diverso approccio interpretativo che riconfigura l’interazione tra storia e mito, tra tradizione e modernità .
La traduzione culturale può essere infatti considerata come condizione necessaria, affinché posizioni fisse di entità strutturate attorno a una relazione di assoggettamento culturale, declinate secondo il paradigma dell’originale e della copia, vengano dinamizzate con l’intento di minare ogni sistema di riferimento ossificato e di sottoporlo a un’operazione di riscrittura nei termini di una discorsività ibrida e modificabile. Questa nozione va a incrinare ogni sorta di esotismo multiculturale e sfida tanto una concezione essenzialista delle diversità culturali, quanto, come sostiene Bhaba, «il nostro senso dell’identità storica della cultura come forza omogeneizzante, unificante, autenticata dal Passato originario, tenuta in vita dalla tradizione nazionale del Popolo».
Atti di responsabilità
Nella pratica della traduzione permanente la dimensione planetaria della moda si fa esperienza collettiva condivisibile al di fuori di ogni sorta di standardizzazione forzata che sia autoreferenzialmente dettata dallo stesso sistema della moda, o imposta da fattori socioculturali e storici. La prospettiva individuata da Calefato, oltre a porsi su un percorso di ideale continuità con il testo di Segre, irradia l’energia di una rinnovata cornice di senso per altri temi affrontati in questo singolare volume, trattati con la sapienza, ma anche con la calcolata lungimiranza di chi sa captare le esigenze e le criticità che attraversano l’attuale sentimento collettivo rivolto alla moda. Che si tratti del lusso o del dispendio, della dimensione temporale o delle nuove tecnologie, ogni argomento o concrezione riflessiva vanno sottoposti al vaglio di una consapevolezza critica, che mira al cuore della fruizione e la sollecita con le sottili strategie del dubbio a un atto di responsabilità , assunto in prima persona dalla stessa autrice quando osserva: «Le tecnologie si fanno meno aggressive e deumanizzanti, si avvicinano a forme di vita semplici… un abito fatto su misura, ma continuamente rimodulabile a partire da pochi essenziali elementi e da un’idea della moda come “aria del tempo”: aria buona da respirare tutti».
Una posizione condivisibile per il suo implicito invito a guardare il sistema globalizzato della moda con la freschezza di uno sguardo non preconfezionato.
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