Cina, silurato il leader «neomaoista»

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PECHINO — Fine della storia. È stato rimosso, da segretario del Partito comunista della municipalità  di Chongqing, Bo Xilai, carismatico e ambizioso leader che dalla provincia insidiava prassi e strategie del potere messe a punto a Pechino. Già  ministro del Commercio, Bo aveva saputo guadagnarsi una vasta popolarità  al di là  della municipalità  dell’entroterra, una trentina di milioni di abitanti: con violentissime campagne antimafia, con un revival maoista e politiche sociali «di sinistra», ha interpretato un modello di sviluppo opposto alla linea tracciata dal numero uno del Partito, Hu Jintao, e dal premier Wen Jiabao. Figlio di un leader rivoluzionario, e dunque nell’élite dei cosiddetti «principini», ha pagato la sua hybris, la tracotanza che lo ha rovinato a pochi mesi dal congresso che incoronerà  Xi Jinping, altro «principino», segretario del Partito. L’obiettivo di Bo, un posto fra i 9 membri del Comitato permanente del Politburo, pare tramontato.
La caduta del sessantaduenne Bo era stata annunciata dalla freddezza e dal distacco con cui per anni Pechino aveva seguito le sue performance a Chongqing. Scetticismo di fronte alle sue campagne neomaoiste, a base di canzoni patriottiche e retorica nostalgica da Guardie Rosse fuoritempo. E, il 6 febbraio, l’evento che ha fatto precipitare la situazione: la fuga dell’ex capo della sua polizia, e vicesindaco, Wang Lijun nel consolato americano di Chengdu (capoluogo della confinante provincia del Sichuan) per una notte. Wang, il superpoliziotto stratega della campagna anticrimine di Bo, è adesso sotto indagine a Pechino, ma la sua sorte è immediatamente apparsa legata a quella di Bo, che lo aveva da poco epurato.
Durante la sessione annuale del parlamento, aperta all’inizio di marzo, Bo ha alternato assenze strategiche e apparizioni nelle quali esibiva la consueta sicurezza di sé. Mentre giravano voci secondo cui Wang Lijun potrebbe essere stato uno strumento per incastrare Bo, il colpo definitivo è giunto quando il premier Wen ha evocato la «tragedia della Rivoluzione Culturale» e ha invitato la leadership di Chongqing a «riflettere sull’incidente Wang Lijun». Ieri, infine, le righe stringate dell’agenzia Xinhua sulla rimozione di Bo e la sua sostituzione con il vicepremier Zhang Dejiang. Studi in Corea del Nord, neanche fosse una specie di cura omeopatica alla «cultura rossa» di Bo, Zhang conserva (inusualmente) la carica di vice primo ministro, facendo apparire la sua missione come un commissariamento di Chongqing. Wang invece è stato privato del ruolo di vicesindaco.
«Bo è stato il più lucido a capire la portata delle ineguaglianze nella società  cinese. È un populista che ha toccato interessi consolidati che si sono sentiti minacciati. La sua fine non è stata causata da problemi ideologici», dice alCorriere Shen Youjun, politologo all’Università  Normale di Pechino. E mentre il web friggeva di speculazioni e pure di attestati di simpatia, ancora in serata mancavano una spiegazione ufficiale della cacciata di Bo e indicazioni sulla sua sorte futura. Dalla militanza in una delle fazioni più oltranziste delle Guardie Rosse, la brigata Linadong, dalla sua relativamente tardiva adesione al Partito (1980), Bo era approdato a trattare Chongqing come un bacino elettorale all’occidentale e sapeva tamponare gli impopolari esibizionismi del figlio, educato all’estero e avvezzo alle auto di lusso. Un blog lo ha paragonato, con paradossale ironia, all’Anakin Skywalker di Guerre stellari: il cavaliere Jedi che abbraccia il «lato oscuro della Forza» diventando Darth Vader. Fatale ambizione. Arrivata la resa dei conti, si scopre che quello di Bo non è un film.
Marco Del Corona


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