Cina, l’oscura battaglia per il potere

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 Non è facile capire la politica estera della Cina, quasi impossibile coglierne le sfumature interne. Sul fronte internazionale Henry Kissinger, in un recente saggio, paragona la strategia cinese al tradizionale gioco orientale del weiqi.

Nel weiqi le pedine hanno tutte lo stesso valore e la stessa modalità  di movimento (una casella alla volta in una scacchiera di 19×19 caselle): per “mangiare” l’avversario è necessario circondare, avvolgere completamente con le proprie pedine quella altrui. Scopo del gioco è conquistare la maggior superficie e ridurre all’impotenza il nemico. La strategia di comportamento è dunque lenta e meticolosa con la ricerca di un’armonia tra la difesa e l’attacco ma soprattutto tra la necessità  di tenere vicine le pedine (che così possono essere circondate e fatte prigioniere con più difficoltà ) oppure di lanciarle all’attacco disperdendole e rischiando perdite. L’obiettivo quindi va perseguito indirettamente, attraverso movimenti a prima vista incomprensibili o diversivi, comunque lontani dai punti strategici o dal cuore della battaglia. Le pedine hanno lo stesso valore e devono muoversi con ordine e disciplina in un quadro unitario, ben presente nella mente del giocatore.

Fuori di metafora la politica estera cinese segue la tradizione del weiqi: piccoli passi avvolgenti, coerenti e determinati che non cercano di affondare subito il colpo decisivo.La “lunga marcia” della Cina post maoista è segnata da un incedere lento e globale: il tempo del “grande balzo in avanti” si è concluso, sostituito dalla stagione delle riforme armoniche interne, dell’inesorabile espansione economica, della rete mondiale di nuove alleanze.

La Cina cerca di avvolgere lentamente l’altra potenza egemone, gli Stati Uniti, che faticano a contrapporre una strategia adeguata. Le scorse settimane ci parlano di un attivismo diplomatico cinese imponente: Xi Jinping, quasi sicuro nuovo presidente, ha offerto in febbraio le sue credenziali in un trionfale viaggio tra Stati Uniti, Irlanda e Turchia; Li Keqiang (prossimo primo ministro) ha rincuorato i vertici europei nel tradizionale summit Cina-UE dicendosi ben impressionato dai piani per affrontare la crisi del debito sovrano; il vicepremier Wang, in visita in Sud America, ha promesso al Brasile di intensificare gli scambi commerciali bilaterali; l’inviato speciale di Pechino Zhai Jun ha gelato la comunità  internazionale recandosi a Damasco, proprio mentre la repressione infuriava.

La visita di Xi Jinping negli USA avvenuta nel mese scorso è stata una marcia trionfale. Scortato dal troppo accondiscendente vicepresidente americano Joe Biden, il prossimo reggitore del nuovo impero cinese si è rivelato più aperto e positivo nelle relazioni umane arrivando addirittura a rispondere alle domande degli studenti di un college. Dal punto di vista della sostanza Xi non ha ceduto nulla, né sul fronte economico, né su quello politico, né tanto meno su quello militare in cui sta aumentando la pressione.

Sembra quasi che la Cina riesca bene in tutto e che, al di là  dei problemi sui diritti umani, sia un modello da imitare anche per la transizione politica: dopo tutto in meno di trent’anni i cinesi hanno cambiato 4 presidenti. Le ultime vicende dimostrano invece lafarraginosità  e gli oscuri intrighi di un cambio al vertice che vorrebbe essere armonioso e consensuale.

Occorre evidenziare che il PCC non è un partito monolitico ma presenta almeno tre correnti: i “taizi”, “principi rossi”, figli di rivoluzionari o di dirigenti della Cina maoista (di solito più conservatori); i “tuanpai”, provenienti dalla Lega dei giovani comunisti, oggi al potere con il presidente Hu e il premier Wen (riformisti moderati aperti a innovazioni democratiche); infine la “cricca di Shanghai”, impersonata dal vecchio leader Jiang Zemin, ultracapitalisti in economia ma autoritari in politica. A questi gruppi in futuro si aggiungerà  probabilmente quello dei “Haigui”, le “tartarughe di mare”, cioè i cinesi ritornati in patria dopo aver studiato o fatto fortuna all’estero, sicuramente portatori di istanze di rinnovamento e di libertà .

I giochi di oggi riguardano le tre correnti. Il presidente in pectore Xi è un “principe rosso” riformista, dunque una sintesi fra le varie istanze. Bo era un maoista conservatore, completamente inviso al primo ministro Wen, forse l’esponente più democratico della nomenclatura. Al termine della quinta sessione del Parlamento cinese, il 14 marzo scorso, il premier Wen Jiabao ha tenuto l’unica conferenza stampa dell’anno, la sua ultima da quella carica. Wen è stato molto duro: “Le riforme sono arrivate a un punto critico. Senza le riforme politiche adeguate, quelle economiche non potranno essere portate a termine. I risultati ottenuti potrebbero andare perduti, e una tragedia storica come la rivoluzione culturale potrebbe ripetersi. Ogni membro del partito dovrebbe provare un sentimento di urgenza”.

I giorni successivi a questo discorso sono stati tumultuosi e di difficile interpretazione: la caduta di Bo Xilai, i sospetti su Zhou Yongkang un altro membro del Comitato Permanente, la notizia di una sparatoria nel quartier generale della dirigenza cinese.Insomma la transizione è sulla soglia del caos. Teniamoci la democrazia, ancora una volta il sistema meno imperfetto per governare la comunità  degli uomini.


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