CHI HA PAURA DI UNA NUOVA RAI?
A parte il consolidamento del vecchio duopolio Rai-Mediaset, sopravvissuto nel passaggio dal sistema analogico al digitale, il difetto principale di quella pseudo-riforma consiste nel fatto che trasferisce il controllo della televisione pubblica dal Parlamento al governo. E con ciò, contraddice proprio la sua funzione d’interesse generale: vale a dire quella di garantire – come ricorda l’autore del libro citato all’inizio – il diritto alla libertà d’espressione e d’informazione sancito dalle Carte costituzionali di tutta l’Europa. Non c’è dubbio, perciò, che la necessità di modificare la governance dell’azienda – reclamata a gran voce dal Pd di Pier Luigi Bersani – è chiara ed evidente.
Ma nella situazione in cui siamo, con un governo tecnico o istituzionale che dir si voglia, un tale vulnus potrebbe anche risultare paradossalmente un pregio o un vantaggio. Perché di fatto consegna al presidente Monti e al ministro Passera la facoltà di porre l’imprimatur sul futuro vertice della Rai, al posto di quello attuale in scadenza a fine marzo. Proprio in forza della Gasparri, al governo in carica tocca ora nominare il suo nuovo rappresentante nel Cda; designare il presidente che poi dev’essere formalmente eletto dalla Commissione parlamentare di Vigilanza con una maggioranza qualificata dei due terzi; e, infine, indicare il direttore generale che dev’essere nominato dal consiglio di amministrazione.
È assai improbabile che, in base agli attuali rapporti di forza parlamentari, si possa davvero riformare la Rai con la collaborazione di chi l’ha assaltata, depredata, danneggiata, attraverso un’occupazione manu militari: e cioè, il centrodestra rappresentato oggi dal Pdl. Tanto più che si tratta del partito-azienda che continua a considerare la tv pubblica come il suo principale rivale, avversario, nemico: sia sul piano politico sia su quello pubblicitario e quindi economico. Sarebbe già tanto, perciò, se la mediazione di Monti riuscisse a ottenere una mini-riforma, per ridurre il numero dei consiglieri da 9 a 5, risparmiare i rispettivi emolumenti e soprattutto favorire la composizione di un vertice più omogeneo. In linea, peraltro, con quanto è stato già stabilito per l’Autorità sulle Comunicazioni.
La verità è che, ad aver paura di una nuova Rai, sono proprio il Pdl e Mediaset. Il partito-azienda, perché teme di perderne il controllo politico. L’azienda-partito, perché teme di ritrovarsi un concorrente più agguerrito e competitivo, sul piano della programmazione, dell’audience e quindi della raccolta pubblicitaria. Al momento, nonostante l’erosione dei canali digitali tematici e di quelli satellitari, i sei canali generalisti tradizionali (tre Rai e tre Mediaset) continuano ad attrarre la larga maggioranza dei telespettatori che, nel giorno medio, superano addirittura il 75% del totale (2010).
Nel saggio del professor Richeri per Laterza, c’è anche un capitolo intitolato “Perché un’impresa televisiva pubblica?”. E l’autore, dati alla mano, fornisce un’articolata ed esauriente risposta, rilevando innanzitutto che “il ruolo della pubblicità nel sistema televisivo italiano è centrale, dal momento che genera quasi la metà delle risorse complessive”: 4,324 miliardi di euro, su un totale di 8,976, pari al 48%. Né manca di sottolineare l’anomalia che, rispetto al resto d’Europa, nel nostro Paese tre imprese (Rai, Mediaset e Sky) “controllano quasi il 90% delle risorse totali, mentre il restante 10% è frammentato tra le altre imprese nazionali e locali”. La somma di una tale concentrazione, fra entrate pubblicitarie e abbonamenti, “raggiunge quasi 8 miliardi di euro su un totale di 9”.
Non si tratta, dunque, di intervenire soltanto sulla governance della Rai, per liberarla finalmente dalla morsa della partitocrazia che ne mortifica l’autonomia e l’indipendenza. Ma anche di provvedere alle fonti di finanziamento, per sottrarre l’azienda alla schiavitù dell’audience e restituirla al suo ruolo di servizio pubblico. Quanto al canone, inteso come “tassa di scopo”, è ancora Richeri a rilevare che “il mancato pagamento da parte delle famiglie rappresenta una perdita di circa 600 milioni di euro all’anno, a cui si aggiungono 140 milioni per il canone non pagato dagli enti: una cifra che corrisponde nell’insieme al 30% del bilancio Rai 2010”.
Al governo di Monti e Passera non sfuggirà certamente la dimensione economica – oltreché politica, sociale e culturale – della “questione televisiva”, anche per la sua influenza sullo sviluppo del Paese. La Rai è perciò la prima casella da cui bisogna necessariamente partire.
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