C’era una volta il ceto medio oggi è in coda per un pacco di pasta

by Sergio Segio | 21 Marzo 2012 16:38

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da http://inchieste.repubblica.it
MILANO – Andrea si tortura nervosamente le mani mentre risponde alle domande dando le spalle alla telecamera. La faccia non vuole mostrarla (anche il nome è di fantasia) perché da quando non riesce più a mantenere la sua famiglia sente di avere qualcosa da nascondere, un segreto del quale vergognarsi. Travolto dalla crisi che ha spazzato via un’esistenza fatta di certezze che sembravano indistruttibili: “Nel 2009 è nato il nostro terzo bambino, e subito dopo la cooperativa in cui lavoravo mi ha lasciato a casa, e anche mia moglie, che faceva saltuariamente la parrucchiera, non è stata più chiamata”.

Ora tra i muri spogli e l’odore acre dell’incenso del centro d’ascolto Caritas, dove il retro di una sacrestia è stato trasformato in un ufficio aperto mattina e pomeriggio, cerca le parole per spiegare qualcosa che per primo avrebbe faticato a capire 24 mesi fa: “La gente non ha idea di cosa significhi non avere più un euro, davvero, neppure una moneta. Io stavo bene, non perché avessi chissà  quanti soldi ma in quanto riuscivo a vivere tranquillo insieme alla mia famiglia, tutto quello che chiedevo alla vita”.

Timido e spaesato, Andrea è uno dei tanti che sempre più spesso bussano alla porta di questa struttura di sostegno per avere ogni settimana un pacco viveri e, quando è possibile, una piccola somma di denaro per le utenze e l’affitto simbolico. “Di fame non si muore  –  spiega la volontaria Rosi Schenone  –  per chi si sa muovere ci sono le mense. I problemi veri sono la casa e il lavoro”. Andrea è uno dei cosiddetti “nuovi poveri”: nuovi non solo perché caduti solo recentemente nell’indigenza, ma anche perché appartenenti a categorie prima non interessate dalla miseria. Italianissime famiglie di lavoratori lasciati a casa da un giorno all’altro, padri ai quali una separazione ha portato via insieme agli affetti anche i soldi per vivere e hanno imparato a chiamare “casa” le sale d’aspetto degli ospedali, immigrati che ce l’avevano fatta a costruirsi una solidità  economica e ora sono ritornati al punto di partenza: camminano tutti su una linea di confine che mese dopo mese diventa sempre più sottile.

E se gli italiani possono rivolgersi per un breve periodo a parenti e conoscenti, la situazione degli stranieri è ancora più allarmante: completo disorientamento, difficoltà  linguistiche e pochi contatti. Costituiscono il 70 per cento delle persone che si rivolgono ai centri Caritas in tutto il territorio nazionale: “Anche fra gli immigrati è aumentato il bisogno di sostegno diretto per l’alimentazione, i trasporti, le medicine  –  spiega Pedro Di Iorio, responsabile del Servizio accoglienza immigrati (Sai) – Un passo indietro rispetto a qualche tempo fa, quando i bisogni cominciavano a essere legati anche al vivere sociale. Se le badanti rumene ci chiedevano aiuto per un’emancipazione professionale in linea con le esperienze fatte nel proprio Paese, ora questo tipo di richiesta si è affievolita”.

Molti di quegli stranieri arrivati dieci anni fa in Italia in condizioni di indigenza e poi, ottenuto un lavoro regolare, entrati in una situazione di sicurezza anche economica, sono oggi i cosiddetti “poveri di ritorno”. Come Omar, a Milano dal 2002, che aveva trovato un impiego nel settore dei trasporti per poi mettere al mondo due figli con la moglie che lo aveva raggiunto nel nostro Paese. La crisi non ha sconvolto immediatamente il loro tenore di vita, ma sono caduti in miseria gradualmente: il lavoro prima ridotto a un part time e poi perso, e il permesso di soggiorno scaduto per entrambi perché senza un contratto viene meno ogni diritto a vivere un’esistenza “regolare”.

Un’emergenza crescente, dietro la quale si nascondono migliaia di piccole storie, tristemente simili. La soluzione, spesso soltanto momentanea, è la convivenza. E di iniziative, per fronteggiare situazioni drammatiche, di recente ne sono nate diverse. Lo scorso dicembre la Caritas ha aperto un rifugio con 64 posti letto: quattro sono destinati alla pronta accoglienza, gli altri sono stati occupati per metà  da italiani e per l’altra metà  da stranieri. Perché le maglie della povertà  non hanno certo un’etnia ben precisa: abbracciano l’Europa dell’est, l’estremo Oriente, i paesi dell’Africa meridionale, il Maghreb, ma hanno anche i tratti occidentali. Italiani sono i 15 ospiti della “Casa dei papà  separati” a Rho, gestita in collaborazione con i padri oblati dimissionari. “Una goccia d’acqua nel mare  –  commenta Ernesto Emanuele, presidente dell’Associazione padri separati cristiani  –  Gli uomini reduci da una separazione sono 100mila all’anno, e di questi fra il 30 e il 40 per cento si trova in uno stato di difficoltà “.

La comunità  di Sant’Egidio, invece, a giugno del 2011 ha aperto le porte di un appartamento confiscato alla mafia a tre ultraottentenni con difficoltà  economiche e alloggiative. Tutta una rete di progetti che provano a rispondere, con fatica, ai bisogni dei singoli, ma per questo servono i volontari, che sono sempre meno: “Non ce ne sono tanti, c’è come il timore di non rispettare un impegno del genere”, osserva Schenone. Spaventati da una povertà  non più lontana, ma pericolosamente vicini alla realtà  di chi si propone per offrire aiuto: “Fare il volontario oggi è impegnativo, difficile e pesante  –  sostiene Luciano Gualzetti, vicedirettore della Caritas Ambrosiana  –  perché ci si sente coinvolti in prima persona, in situazioni drammaticamente sempre più comuni”.

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