Anne Sinclair: “Io, da sempre femminista su Dsk non accetto lezioni”
«Sono una femminista, da sempre. Ma non accetto lezioni sul mio comportamento da altre femministe». In un salone dell’Hotel des Saint-Pères, nel sesto arrondissement, Anne Sinclair sorseggia tè verde. Ha il viso meno scavato di quando apparve in mondovisione al fianco del marito, Dominique Strauss-Kahn, nel tribunale di New York. E’ in tailleur gonna nero, l’unico dettaglio cromatico che ricorda quel fatidico giorno. Per molte donne, Sinclair rappresenta un enigma. Troppo sottomessa, troppo forte? Gioca con la penna appoggiata sul tavolo accanto al taccuino. «Ottima scelta» dice con un sorriso. Ha accettato di farsi intervistare a condizione di non parlare delle inchieste giudiziarie su Dsk ancora in corso. La settimana prossima è prevista la prima udienza della procedura civile intentata dalla cameriera del Sofitel, mentre a fine mese l’ex direttore del Fondo monetario potrebbe essere formalmente indagato nello scandalo di prostituzione partito da Lilla. Lei ormai ha voltato pagina, almeno in parte. Dal 23 gennaio, Sinclair è direttrice dell’edizione francese dell’Huffington Post e sta per pubblicare un libro, “21 rue La Boétie”.
Sa già che molti lettori saranno scontenti?
«Posso immaginarlo: chi si aspetta qualche rivelazione nel mio libro resterà deluso. Parlo di mio nonno, Paul Rosenberg, un uomo formidabile, uno di quei mercanti d’arte che tra il 1918 e il 1940 hanno promosso e sostenuto artisti contemporanei come Braque, Picasso, Matisse, quando non erano ancora di moda».
Tutto parte da un banale controllo di polizia.
«Nel 2010 mi sono ritrovata a dover giustificare la mia nazionalità , e quella dei miei nonni. Mi è sembrato di rivedere una mentalità che non pensavo potesse tornare in Francia. E’ così che è incominciata una ricerca più intima sulla mia famiglia. Il libro era già pronto l’anno scorso, ne ho ritardato l’uscita a causa degli eventi legati a mio marito. Vedremo se un giorno avrò voglia di scrivere invece su questa storia recente. Per adesso, non me la sento proprio».
L’indirizzo 21 rue La Boétie è divento un simbolo, per lei ma non solo.
«Mio nonno è dovuto partire da questa casa di famiglia nel giugno 1940, arrivando poi a New York. Per uno strano caso del destino, il palazzo è diventato la sede di un officina della Gestapo, con compiti particolarmente odiosi. Ho raccolto foto di mostre che sono state organizzate nella sede, ad esempio quella su come riconoscere un ebreo da un francese. A volte, si dimentica la violenza delle parole dell’epoca».
L’America che ha dato rifugio alla sua famiglia, è diventato anche il paese nel quale suo marito è stato arrestato. Ha del risentimento?
«L’America della mia infanzia è idealizzata. Ho conosciuto un altro paese da adulta, soprattutto trasferendomi a Washington negli ultimi quattro anni. Nel maggio 2011 mi sono ritrovata in qualche modo prigioniera dell’America. La città di New York è diventata per me e la mia famiglia sinonimo di violenza e ingiustizia. Poi, però, ci sono tornata di recente per l’Huffington Post. I ricordi si susseguono, senza mai sovrapporsi».
Perché più di dieci anni fa, al culmine del successo televisivo, ha messo il suo mestiere tra parentesi?
«Una scelta di deontologia, fatta quando mio marito è stato nominato ministro delle Finanze. Una giornalista è un po’ schizofrenica, è capace di fare domande anche alle persone più care, senza tener conto del legame affettivo. Ma i telespettatori non mi avrebbero più riconosciuto questa libertà ».
Cosa l’ha convinta invece a tornare sulla scena?
«E’ Arianna (Huffington, ndr) che mi ha rimesso al lavoro. Mi sono lanciata in questa bella avventura, con una redazione più giovane e geek di me. In meno di due mesi, siamo riusciti a ottenere 2 milioni di visitatori unici, un ottimo risultato anche se i nostri mezzi sono limitati».
Come vi comportate con le notizie che riguardano Dsk?
«A proposito di mio marito, siamo stati molto chiari sin dall’inizio con Arianna e poi con la redazione. Valutiamo le notizie, tutte le notizie, con lo stesso metodo. Senza tener conto di me o di chicchessia».
L’affaire è uno spartiacque nell’informazione francese, tradizionalmente riservata sulla vita privata di uomini pubblici.
«L’impatto è stato violento. I colleghi dovevano raccontare un evento internazionale, con dei risvolti politici e sociali. Lo capisco. Ma io e mio marito siamo stati vittime di una deriva dell’informazione. Un inedito voyeurismo, un modo di guardare la nostra coppia dal buco della serratura. Non è compito dei giornalisti fare lezioni di morale».
Cosa risponde ad alcune femministe che l’accusano di essere remissiva?
«Ho incominciato a lavorare da giovane in un ambiente maschile. Nel mio piccolo, mi sono battuta per la parità delle carriere, degli stipendi. Il femminismo è nato come difesa delle libertà e dell’eguaglianza di diritti, alcune donne vogliono farne invece una battaglia contro gli uomini. Ma non spetta alle femministe dire: ecco come dovete condurre la vostra vita».
Ci sono anche donne che ammirano il suo coraggio. Se ne compiace?
“Tutto mi tocca. Le critiche e gli elogi. Le violenze e gli applausi. Ma non chiedo niente a nessuno. Non faccio l’apologia di qualcosa, e non voglio dare lezioni. Vorrei che fosse lo stesso per gli altri. La gente per strada mi ferma, ricevo testimonianze di simpatia. Prima accadeva per la mia professione. Oggi è diverso, ogni tanto è invadente. Cerco di abituarmi. Quando hai per due mesi delle telecamere puntate sulla tua camera da letto, capisci che non potrai mai più ritrovare l’anonimato. C’est la vie, è la vita».
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