Allieve contro polizia religiosa Scontri all’università  saudita

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Un mare di veli identici e neri, che coprono visi, corpi, capelli. Solo le mani spiccano bianche contro quella oscurità  in movimento.Molte fanno il segno della vittoria, altre stringono telefonini. Si sentono urla, le acute zarghutadelle donne arabe che esprimono gioia, o dolore. È uno dei video, brevi e confusi, arrivati dall’università  femminile Re Khaled di Abha. Una città  che in Occidente quasi nessuno conosce, nel profondo sud-ovest dell’Arabia Saudita, arroccata a 2.200 metri d’altezza sui monti verso lo Yemen. È qui che mercoledì si è spinta a sorpresa l’onda della Primavera araba. Una protesta che ha visto 8 mila studentesse affrontare fisicamente la polizia religiosa, le forze dell’ordine. Il ministero della Sanità  ha poi ammesso: «Ci sono state 53 ferite, 22 di loro curate in ospedale». Si sparge la voce di una ragazza morta per crisi epilettica dopo gli incidenti, un’altra avrebbe abortito. Nessuno conferma queste affermazioni e suscita dubbi che a insistervi siano i media iraniani: la Repubblica islamica è arcinemica del Regno saudita, la crisi siriana ha peggiorato i rapporti e aumentato la «disinformazja».
Ma anche in assenza di «martiri», Abha è diventata già  un simbolo. Non solo perché il Regno ha evitato finora il contagio delle rivolte: solo gli sciiti nell’Est hanno osato tentare una nuova intifada, con scarso successo. Ma perché a sfidare le autorità  sono state le donne, nel Paese più maschilista della regione e forse del mondo. «Tutto è partito dalle condizioni misere delle facoltà  femminili di lettere e magistero: assoluta mancanza di attrezzatura e di igiene — spiega sul suo blog Wael, fratello di un’allieva contestatrice —. E poi i continui maltrattamenti da parte delle addette alla sicurezza, la pessima gestione del rettore corrotto. Già  martedì c’era stato un diverbio per la sporcizia, le ragazze avevano gettato sulle guardiane bottiglie e lattine. Mercoledì per ripicca nessuno ha pulito, c’era immondizia ovunque. Le guardiane hanno aggredito le ragazze, usato idranti e estintori, le studentesse gettato tutto quello che trovavano. È arrivata la polizia religiosa, poi le forze dell’ordine».
Il governatore della regione principe Faisal bin Khaled, che ha cercato di sminuire la rivolta, ha promesso «un’inchiesta». L’università  ha giustificato l’intervento della polizia come «necessario per riportare nel campus la buona condotta». Ma le ragazze non tornano indietro. Spiegano che «non è solo per il degrado della facoltà , ma per la mancanza di libertà » che si sollevano. «Vogliamo usare Internet e i cellulari quando vogliamo, meno limiti per l’abbigliamento». E «sabato — oggi — ci sarà  un nuovo sit-in, venite tutti, anche i maschi», scrivono sui social network, incoraggiate da tutto il mondo. «Brave! Avete osato quello che i maschi sauditi non osano», scrivono in molti.
Il coraggio delle saudite nelle loro battaglie, in testa quella per guidare, non è nuovo. Ma è inedito che questa protesta non sia nata tra l’élite intellettuale di Jedda, Riad o dell’Est, bensì in una città  di montagna tradizionale. E che tutto sia nato dalla richiesta di «più igiene in classe». «Perché stupirsi? Tutte le rivolte nel mondo sorgono oggi da giovani che vogliono risultati concreti, sono stanchi di sistemi vecchi e corrotti e di tante parole — commenta il noto politologo saudita Khaled Al Maeena —. Sono appena tornato dagli Usa, anche lì i giovani occupano Wall Street perché perdono casa e lavoro mentre i banchieri hanno bonus più alti. L’Arabia, almeno su questo, non è diversa dal mondo».


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