by Editore | 21 Marzo 2012 7:02
«Il mio vero nome è Oscar Ribeiro de Almeida de Niemeyer Soares ma sono conosciuto come Oscar Niemeyer. Le mie origini sono multiple, cosa che mi aggrada particolarmente: Ribeiro e Soares, portoghesi; Almeida, arabo; Niemeyer tedesco. Sono dunque meticcio come sono meticci tutti i miei fratelli brasiliani». In questa dichiarazione del più grande architetto vivente, vi è la sintesi del Brasile e della brasilianità .
Il Brasile ha una superficie diciotto volte più grande e una popolazione tre volte più numerosa dell’Italia. I suoi residenti provengono da quaranta Paesi diversi per cui i brasiliani amano dire che il loro popolo è composto da quaranta razze. Amano anche dire che non sono mai entrati in guerra con i loro dieci paesi confinanti; che in Brasile non esiste il razzismo, non esistono discriminazioni religiose e non esiste il senso del peccato sessuale.
La cultura brasiliana – che noi conosciamo soprattutto attraverso i romanzi di Amado, le canzoni di Caetano Veloso e di Chico Buarque – è connotata dal senso dell’accoglienza, dell’allegria, della sensualità , della coralità , dell’estetica. Per questo piace tanto a noi italiani e per questo sono quasi trenta milioni gli oriundi italiani che vivono in Brasile, soprattutto negli stati del Sud, dove hanno trapiantato e rinnovato gli usi e i costumi delle loro regioni d’origine.
Tutto questo piaceva anche agli emigrati italiani di fine Ottocento e inizi Novecento. Ciò che piace agli italiani di oggi sono anche altre quattro cose.
Siamo un popolo triste, rivolto al passato, afflitto da un pessimismo cosmico, mentre il Brasile è allegro, esuberante, rivolto al futuro.
Siamo un popolo bloccato, privo di mobilità sociale, mentre in Brasile, nell’ultimo decennio, 18 milioni di poveri sono diventati proletari, 12 milioni di proletari sono diventati piccola borghesia, otto milioni di piccoli borghesi sono diventati media borghesia.
Siamo un popolo privo di guida, con una classe dirigente rissosa, rapace, incapace, mentre il Brasile ha una classe dirigente temprata nella lotta alla dittatura, con una visione emotivamente locale e razionalmente globale. Si pensi alla saggezza nascosta dietro la sequenza dei tre ultimi Presidenti: Cardoso che ha accumulato; Lula che ha distribuito; Dilma che sta consolidando.
Siamo un popolo piatto, opaco, che si crogiola nella futilità delle discussioni e nel compromesso tra gli opposti. Il Brasile, invece, è un prodigioso equilibrio di antagonismi, in cui giocano le culture europee, africane e indigene, la ricchezza colta e la povertà analfabeta, la complessità barocca e la semplicità tropicalista.
Soprattutto piace a noi italiani, appesantiti da una tradizione che ci blocca, la freschezza del popolo brasiliano che spazia libero nei suoi territori sconfinati, curioso e disponibile verso tutte le novità . Come ha detto Gilberto Freire, il grande antropologo di Recife, «Se dipendesse da me non sarei mai maturo né nelle idee, né nello stile, ma sarei sempre verde, sempre incompiuto, sempre sperimentale».
Il regime militare proclamava enfaticamente che “O Brasil è o pais do futuro”. Il Brasile democratico dimostra che il suo futuro è arrivato.
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