Alfano ammette che il Pdl non ritiene prioritario superare le liste bloccate.

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ROMA – «Senza Monti questa maggioranza non ce la fa». Se la fiducia nel lavoro del premier si affievolisce, se i partiti cominciano ad agitare i loro veti e rallentano l’azione dell’esecutivo, i “professori” rischiano davvero di non arrivare in fondo. Le parole di Enrico Letta sono riferite alla riforma elettorale, materia che Monti si guarda bene dall’affrontare e infatti si è impantanata con il pericolo di lasciare in vita il Porcellum. «Ne ho parlato con Alfano, mi sembra scettico», racconta Letta ai suoi interlocutori. Ma il discorso si può estendere alla legge sul mercato del lavoro, alla tensione sull’emergenza che sembra venire meno. «La rinuncia al decreto imposta da Bersani – spiega il vicecapogruppo del Pdl al Senato Gaetano Quagliariello – ha indebolito il governo. Casini ha ragione. E quando arriveranno l’Imu e la dichiarazione dei redditi Monti rischia anche di perdere il consenso dell’opinione pubblica». 
Il leader del Terzo polo ci mette una buona dose di propaganda elettorale nel suo appello. Non è un mistero che l’Udc si prepara a innalzare la bandiera del governo tecnico nella campagna per le amministrative e sarà  l’unica forza di maggioranza a farlo. Ma la preoccupazione di Letta e Quagliariello, tifosi di Monti nel Pd e nel Pdl, dimostra che il rischio-crisi non è soltanto uno slogan. I movimenti delle forze politiche intorno alla riforma del lavoro sono monitorati con una certa apprensione anche da Giorgio Napolitano. Per questo alla direzione del Pd oggi Pier Luigi Bersani si spenderà  in una difesa quasi assoluta del testo preparato dal ministro Elsa Fornero. Quasi. Perché il punto dell’articolo 18 sui licenziamenti economici va cambiato in Parlamento e lì si annida il veleno. Dove Monti segna il passo per il pressing della sua “strana” maggioranza, i partiti tornano alle vecchia abitudini. Solo una blindatura del disegno di legge (che sarà  pronto tra dieci giorni) può aprire la strada a una rapida approvazione. Il rilancio del modello tedesco, che Bersani si accinge a fare oggi, convincerà  il Pdl ad altri tipi di contestazioni. Gli imprenditori ad esempio stanno pressando Silvio Berlusconi per cambiare le norme più rigide sulla flessibilità  in entrata. 
C’è ancora chi pensa alle elezioni anticipate, dunque? No, dicono tutti. Ma c’è un’opzione che ha aspetti lo stesso inquietanti: un governo tecnico chiamato a salvare l’Italia che viene imbrigliato e ridotto all’impotenza dai suoi alleati. «L’emergenza non è finita – avverte Letta – . Questa settimana è decisiva per le sorti di Portogallo e Spagna. Noi intanto dobbiamo piazzare 20 miliardi di titoli di Stato». E se Monti si indebolisce può cadere il castello, peraltro fragilissimo, delle riforme istituzionali, altro tema carissimo al Quirinale. «La verità  è che i nostri elettori non sono sensibili alla questione delle liste bloccate, non gliene importa niente», ha confidato Alfano a Casini e Letta nei giorni scorsi. Non una chiusura, ma nemmeno un’autostrada per il cambiamento del Porcellum. Il segretario del Pdl risente certo degli umori del suo stato maggiore: ex An in trincea contro la riforma ed ex Forza Italia affezionati alla “porcata”. Epperò i tempi stringono, sono insufficienti anche per la mini-riforma costituzionale, voto ai 18enni per il Senato e riduzione dei parlamentari a 750. Il castello può essere salvato solo da un Pd veramente deciso e unito sull’ipotesi degli esperti già  varata e dalla parola finale di Berlusconi. Che per il momento, a sentire Quagliariello, sembra tirare dritto: «La riforma noi la vogliamo davvero. Al punto che in caso di rottura trasformeremo in nostro disegno di legge la bozza scritta tutti insieme. Così vediamo chi fa marcia indietro».


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