Ai piccoli istituti la parte del leone “Ora ossigeno a famiglie e imprese”

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MILANO – Se il primo prestito triennale Bce (490 miliardi) è servito soprattutto a rifinanziare i bond delle grandi banche europee, il bis di ieri da 530 miliardi dovrebbe andare al sostegno dei titoli sovrani e del credito a famiglie e imprese. È la sintesi che gli addetti ai lavori fanno dopo avere analizzato le caratteristiche della seconda asta a tassi agevolati (sempre sull’1% annuo, anche se stavolta il tasso è variabile). La maggior differenza tra le due emissioni è nella composizione dei beneficiari. Lo scorso dicembre 523 grandi banche commerciali d’Europa, ieri 823 istituti tra cui molti piccoli, controllate di gruppi esteri e tesorerie di imprese.
È proprio l’adesione degli “irregolari” che fa la felicità  di Mario Draghi e dei governanti europei. La loro logica è stringente: dato che i piccoli istituti sono più attivi nel finanziare l’economia reale, e quindi si suppone abbiano portato a garanzia dei prestiti Bce non titoli ma crediti a famiglie e imprese, è stabilito un nesso diretto tra la provvista Bce e le erogazioni all’economia. A scongiurare il credit crunch, che produce recessione e disoccupazione endemica. Solo nel medio termine si avrà  la prova del ragionamento. Certo con 1.020 miliardi in cassa, per tre anni e a costi minimi, le banche europee hanno un assist dorato per limitare i guai che verranno dalla chiusura del mercato interbancario e dalle perdite sui crediti e il trading (per la turbolenza dei mercati). «L’asta produrrà  benefici effetti nel medio termine – commenta Davide Serra, gestore del fondo Algebris Capital – il presidente Draghi ha salvato il sistema finanziario europeo: ora i governi hanno 2-3 anni di tempo per fare le riforme. Nel frattempo le banche non hanno bisogno di rifinanziarsi emettendo bond a tassi elevati». Le riforme restano il vero problema, a nulla servirà  la pioggia miliardaria di Francoforte senza il fiscal compact in Europa e il calo di certi debiti sovrani. Come scrive Mediobanca Securities, il consolidamento fiscale che impone di limare il debito/Pil al 60% (per l’Italia la metà  del livello odierno) comporta manovre correttive da 40 miliardi l’anno per i prossimi 20 anni. Senza un taglio netto immediato, è un cimento che neanche il governo Monti può sognarsi; a quel punto, conclude l’analista Antonio Guglielmi, le banche nazionali e il loro milieu avrebbero un viatico doloroso in tutti i casi.
Proprio le caratteristiche macro dell’Italia la rendono tra i primi beneficiari delle aste triennali Bce. Dopo richieste per 116 miliardi a dicembre, ieri i gruppi italiani hanno chiesto e avuto 139 miliardi, con cui portano a 280 miliardi l’esposizione verso Francoforte; una somma che dice quanto il sistema sia assistito. Intesa Sanpaolo ha chiesto 24 miliardi (il doppio che a dicembre, e con un’esposizione Bce di 45 miliardi, perché si aggiungono 10 miliardi a breve), Unicredit ne ha presi una decina (15 a dicembre, totale Bce sui 30 miliardi), Mediobanca 3,5 miliardi (4 a dicembre, fanno 7,5 miliardi), Mps 14 miliardi (più 10 a dicembre, totale 25 miliardi), Ubi 6 miliardi bissando la scorsa asta, Banco popolare 3,5 miliardi da sommare ai 10 avuti a dicembre. Poi c’è l’esercito delle banche minori.
La domanda delle mille pistole è se con i soldi le banche italiane faranno più crediti, invertendo il trend che a dicembre ne misurava la crescita “quasi zero”. Togliere pressione al costo del funding triennale pone le premesse per una maggiore attenzione verso famiglie e imprese. Poi ci sono gli utili facili sul Tesoro: almeno un 3% l’anno, comprando Btp. Una primaria Sim stima che circa un quarto dei fondi Bce di ieri andrà  sul debito pubblico. Tolto il centinaio di miliardi da usare per rifinanziare i bond bancari scadenza 2012, il resto dovrebbe finire nel rivolo in cui lo scosso cavallo tricolore cerca ristoro.


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