Ahmadi Nejad vs Ali Khamenei
Nelle vie di Tehran, come di tutte le città dell’Iran, campeggiano in questi giorni poster con facce sorridenti e appelli al voto. Sono il rito di ogni consultazione elettorale, e sono quasi l’unico segno visibile a dire che domani, 2 marzo, gli iraniani sono chiamati alle urne per rinnovare il Majlis, il parlamento nazionale.
Per il resto, la campagna elettorale è stata piuttosto spenta. Gli iraniani discutono più dei prezzi che salgono, di economia in crisi, di sanzioni e timori di attacchi militari. E’ lontana l’effervescenza pubblica che aveva accompagnato le ultime elezioni presidenziali, i dibattiti in tv, le manifestazioni pubbliche. Quelle presidenziali, nel giugno 2009, saranno ricordate per la contestata rielezione del presidente Mahmoud Ahmadi Nejad e l’ondata di proteste che ne è scaturita, proseguite per sei mesi e duramente represse.
Il voto di domani è la prima consultazione nazionale da allora, e per questo è un appuntamento importante:non tanto per le chances dell’opposizione, quanto per il durissimo scontro di potere esploso nell’ultimo anno all’interno del sistema.
L’opposizione riformista ha fatto appello a boicottare il voto, che definisce una farsa. E con buona ragione: i leader del «movimento verde», gli ex candidati Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, sono agli arresti domiciliari (extralegali) da oltre un anno, e quasi tutti gli altri dirigenti riformisti sono in galera o hanno movimenti controllati. Le forze politiche e gruppi dell’opposizione sono stati messi fuori legge o costretti al silenzio, i giornali chiusi (o costretti ad autocensurarsi), i leader studenteschi in galera, e così i più noti difensori di imputati per reati politici – come l’avvocata Nasrin Sotoudeh. Nelle ultime settimane una nuova ondata di arresti ha colpito i pochi blogger e attivisti sociali a piede libero.
Con l’opposizione riformista fuori gioco, a misurarsi nelle urne saranno i sostenitori del presidente Ahmadi Nejad e quelli del Leader supremo, Ayatollah Ali Khamenei. La lotta tra i due campi è diventata aperta quando il presidente e il suo collaboratore più stretto, il capo dello staff Esfandiar Rahim Mashaeì, hanno cominciato a professare apertamente un legame diretto con il Mahdi, l’imam «nascosto» che nella dottrina sciita è una sorta di messìa, facendone un aspetto del populismo di Ahmadi nejad: al di là di questioni teologiche, questo significa bypassare l’autorità politica del Leader supremo, il principio del velayat-e faqih (supremazia del giureconsulto) che regge l’architettura istituzionale della Repubblica islamica (paradossale che sia proprio un Ahmadi Nejad, nutrito dell’ortodossia rivoluzionaria, a sfidare questo pilastro del sistema).
Oggi dunque il fronte dei «fedeli ai principi», che fa capo al Leader (e aveva garantito la presidenza a Ahmadi Nejad nel 2005 e nel 2009), corre contro il presidente, benché diviso in diverse correnti e liste elettorali. Forse il dato più importante è che le liste elettorali dei «fedeli ai principi» sono dominate da ex ufficiali e comandanti delle Guardie della rivoluzione, il corpo militare nato nel 1979 e formato negli anni ’80 dalla guerra Iran-Iraq, che ha sempre avuto un importante ruolo politico e un sempre più importante ruolo economico, entrambi rafforzati con Ahmadi Nejad: ma se le Guerdie erano state una base di potere del presidente nel 2005 non lo sono più oggi, e puntano a una buona rappresentanza in parlamento per sostenere il proprio programma politico.
Per Ahmadi Nejad, conquistare una buona maggioranza nel parlamento (che ora gli è in gran parte ostile e ha perfino cercato di fargli un impeachment), vorrebbe dire uscire dalla condizione di assedio politico interno in cui si trova. Sembra che per questo abbia speso grandi somme di denaro – e sembra in effetti nelle province, dove l’eco delle lotte di potere di Tehran è attutito, resta il popolare presidente che ha distribuito sussidi a piene mani. Per entrambi i blocchi di potere, un buon risultato domani significa piazzarsi meglio in vista delle elezioni presidenziali del giugno 2013.
La prima battaglia però resta l’affluenza: se buona servirà a dimostrare che il boicottagio dell’opposizione è caduto nel vuoto, cancellare il ricordo delle proteste del 2009, confermare la legittimità del sistema politico. E, verso il mondo, dimostrare che la nazione è unita contro la minaccia esterna.
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