by Editore | 8 Marzo 2012 16:12
A volte si fatica a digerire questo tipo di ricorrenze bagnate d’istituzionalità . Si accende la tivvù, si dà un occhio ai ministri con la mimosa nell’occhiello della giacca, si seguono i servizi che aprono il telegiornale, in preda ad emorragie di parole senza sale, come “battaglia”, “diritti”. Frasi buttate in mezzo al mare, senza possibilità di attracco: “c’è ancora molto da fare”, “dibattiti sulla condizione della donna”, senza lesinare riferimenti confusi “alle donne islamiche”, quelle donne spesso guardate con diffidenza dalle stesse donne “occidentali”.
Una valanga che travolge tutto: un flusso ad esaurimento, una corsa contro il tempo nel riempire il vuoto con involucri vuoti. L’importante è che questi involucri abbiano colori scintillanti, forme tonde e sorridenti, braccia aperte per abbracci accoglienti, braccia che si chiuderanno alle 00.01, e che si riapriranno tra un anno, scattando come molle al segnale del calendario.
Difficilissimo per un uomo giudicare ed esporsi in questa ricorrenza in cui si sa, il rigurgito sessista è facile come trovare una mimosa calpestata per strada, mentre si corre al lavoro borbottando «ah già , è l’8 marzo». Con piacere, l’apprezzamento va alle donne del nuovo millennio, che sempre più numerose (ma mai sufficienti) iniziano a rifiutare questo cappuccio di plastica usa e getta, fatto di auguri di marmo (come se fosse il compleanno di qualcuno) e di soldi nelle mutande di qualche perizoma maschile, in un night buio e nebbioso.
La festa delle donne è come il Natale, in cui “tutti siamo più buoni”, talmente buoni da bestemmiare in mezzo ai marciapiedi affollati, cercando il regalo per l’odiosa cognata. La festa delle donne? No, la festa “della donna”. Una divisione corporativa che millanta integrazione. Un riconoscimento di minoranza, che ha il sapore di un’ora d’aria in carcere. Una gentile concessione, una ricorrenza nata e morta sulla memoria della tragedia della Cotton, sbiadita sotto i colpi di varie teorie di pensiero, con cui la si vuole attribuire ad una marcia tutta al femminile, durante la Rivoluzione Russa del 1917, così tanto per politicizzare la lotta. Insomma, un trionfo dello svilimento, con l’assurda presunzione di lottare e di ricordare “festeggiando”. Ora, quando si festeggia, di solito, si compie esattamente il processo inverso a quello della battaglia, o dell’analisi, o del ricordo. La concentrazione, il giudizio, la lucidità sulla propria condizione, l’attenzione e la serietà lasciano spazio al giubilo, alla leggerezza, alla sbronza incontrollata, alla libertà di non pensare e di seguire soltanto la canzone che riecheggia dalle casse della console del Disc Jockey. La canzone delle mimose in edicola, e degli auguri entusiasti del collega con l’occhio arrapato, più che la solenne canzone dei diritti e dell’uguaglianza.
Un entusiasmo rubicondo, talmente appiccicoso da forgiare e partorire frasi come «la nostra dignità di donne» o «bisogna sempre sentirsi uniche, non soltanto l’8 marzo», senza mai fermarsi a pensare che l’unica divisione esistente deve essere quella dell’individuo, e non del genere. Senza mai ragionare sul fatto che dalla divisione, dall’autoesclusione, dal corporativismo non potrà mai nascere un totale inserimento con il mondo al di fuori del muro di cinta. Quel mondo che si nasconde dietro qualche fiore giallo puzzolente, portando un possibile dialogo serio e quotidiano allo squallido consumismo della questione femminile. Un consumismo falso e tarocco, che poco si discosta dall’atteggiamento quotidiano, dalla concezione di “oggetto” che accompagna la donna dalla notte dei tempi. La stessa concezione che porta i media a considerare un omicidio di un ex rancoroso come “delitto passionale”, gli stessi media che oggi parlano di “battaglie”, di “diritti”, di “lungo cammino verso la dignità ”.
Un gigantesco controsenso, un post-it per ricordare a tutti che la donna è una specie protetta, come il Panda del Wwf. Protetta per ventiquattrore, addolcita da qualche entrata gratis al museo, o da qualche sconto al cinema, con scadenza fino alla mezzanotte, quando la carrozza ritornerà zucca, e del principe non ci sarà più nessuna traccia, almeno fin quando verrà richiamato dal calendario.
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