Vive la France
PARIGI – So frenchy. Quello che fino a poco tempo fa era considerato un insulto, ora è diventato un complimento, la confessione di una malia, la riscoperta di un’attrazione. Gli americani sono rimasti incantati davanti al sorriso di Jean Dujardin, al tempo stesso raffinato e semplice, dimenticando persino di censurare nella cerimonia degli Oscar la sua imprecazione, “Putain”, come si usa di solito con gli artisti statunitensi. L’argine si è rotto. Sull’Hollywood Boulevard non solo è sbarcata un’allegra compagnia di trentenni e quarantenni che incarnano la “Jeune Vague” del cinema transalpino, ma è andata in scena una dichiarazione d’amore per la Francia. Da Martin Scorsese a Woody Allen, da tempo non si ricordava così tanta creatività nelle relazioni transatlantiche. «Se non possiamo dominare il mondo, perlomeno riusciremo a sedurlo» ha sentenziato ieri in prima pagina Le Figaro. Un altro soft power che ha improvvisamente messo in secondo piano antiche rivalità geopolitiche. Le french fries non sono più il simbolo di un nemico, e forse Time oggi non rifarebbe la copertina che pubblicò nel 2007, sostenendo che la cultura francese era ormai sepolta.
Davvero è morta? Le sale cinematografiche sono stracolme, i musei macinano record, concerti, teatri, biblioteche e librerie, nonostante tutto, resistono alla crisi. Il Louvre è stato visitato nel 2011 da 8,8 milioni di persone, ma anche Versailles, Pompidou e il Musée d’Orsay hanno registrato picchi di ingressi. Nell’ultimo anno ci sono stati fenomeni editoriali che sono diventati internazionali, come il pamphlet Indignatevi! di Stéphane Hessel, tradotto in oltre venti paesi, e il dibattito aperto dal movimento per la decrescita teorizzato da Serge Latouche. Il disegnatore Sempé firma sul New Yorker e le strisce di Marjane Satrapi, iraniana trapiantata a Parigi, sono pure finite agli Oscar. Per il suo ultimo album, Madonna ha collaborato con Martin Solveig, mentre i dj David Guetta, Bob Sinclar, gruppi come Air e Phoenix vengono apprezzati oltreconfine. Certo, sono artisti anglofoni ma lavorano nella capitale francese dove ci sono 300 mila persone occupate tra cinema, editoria, radio, televisione, musei. Londra viene solo dopo, con 235 mila lavoratori.
La Francia oggi offre un modello unico al mondo che sostiene e difende i propri artisti, può contare su regole e organismi pubblici che non ha uguali. Nel 2011, mentre tutti i governi tagliavano, il ministero della Cultura qui ha mantenuto invariato il suo bilancio, 8,4 miliardi di euro, quasi cinque volte le somme destinate in Italia. Una vocazione al mecenatismo che risale idealmente fino a Francesco I, ed è stata costantemente reinterpretata. Nell’ultimo mezzo secolo i protagonisti più noti sono stati i ministri André Malraux al servizio della grandeur e poi Jack Lang durante la presidenza di Franà§ois Mitterrand con l’introduzione di novità tuttora attuali: la legge sul prezzo fisso del libro, oggi rispettata anche da Amazon per gli ebook, le quota di film e canzoni francesi nei cinema e alla radio, l’obbligo per le televisioni di finanziare le produzioni di film indipendenti.
Per paradosso, il trionfo agli Oscar e l’entusiasmo per il french touch avvengono con un ministro che ha un passato da animatore tv e un Presidente considerato tra i meno colti della République. È rimasta famosa l’invettiva di Nicolas Sarkozy contro la Princesse de Clèves, anche se poi ha fatto di tutto per farla dimenticare, compreso ostentare le ultime letture e citare le serate davanti ai film d’epoca.
Al di là dei corsi e ricorsi, l’accesso alla cultura in Francia è sancito dalla Costituzione del 1946, lo sciovinismo non si discute, così come le politiche per difendere i propri autori. Nel 2008 il governo di Parigi è stato all’avanguardia sulla protezione del copyright, approvando ben tre leggi contro lo scaricamento illegale di opere online, affrontando le annesse critiche e polemiche. Nonostante i periodici richiami dell’Unione europea, resiste un’eccezione culturale francese che impone regole al mercato, limita la concorrenza, non sottomette i beni culturali e le opere artistiche alla liberalizzazione delle merci. Molti vedono nell’avventura del film di Michel Hazanavicius la consacrazione di questo modello. E pazienza se c’è chi pensa che Hollywood abbia voluto celebrare soprattutto se stessa, e cioè le origini del cinema, in un momento di transizione dalla pellicola al digitale, della pirateria e dei video on demand sulla Rete.
La magia del grande schermo è nata in Francia, con i fratelli Lumière e George Méliès, protagonista di Hugo Cabret. Un secolo dopo, l’industria cinematografica d’Oltralpe vive un’altra epoca d’oro. Nel 2011 c’è stato un record storico di ingressi, 215 milioni, cifra che non si registrava dal 1967. Merito di un blockbuster come Intouchables (“Quasi amici”), che anche in Italia nel weekend scorso è arrivato secondo al botteghino. Il film di Eric Toledano e Olivier Nakache, visto in Francia da 19 milioni di spettatori, non può essere più considerato un caso isolato se si pensa che l’altro fenomeno popolare, Bienvenue chez les Chti’s, poi adattato anche da noi con “Benvenuti al Sud”, è uscito tre anni fa. «Il legame tra l’intervento pubblico e la vitalità del settore è evidente» si congratula Eric Garandeau, presidente del Centre National de Cinématographie che foraggia la produzione nazionale anche grazie alla tassazione sui biglietti del cinema. Ci sono ovviamente difficoltà , soprattutto per i distributori e gli esercenti indipendenti, schiacciati dalle major e dai multiplex. Molti professionisti del settore lamentano uno squilibrio tra produzioni ricche e povere, mentre i tempi per la diffusione dei film sulle diverse piattaforme, dai dvd a Internet alle tv, è di nuovo in discussione.
Ma la fabbrica dei sogni ha saputo rinnovarsi, aprendosi anche al mondo. Il presidente del Centre National de Cinématographie spiega che le coproduzioni sono in aumento, al Festival di Berlino su 23 titoli selezionati ben 7 erano stati finanziati dalla Francia. Negli ultimi anni, si sono affermati registi di animazione come Alain Gagnol e Jean-Loup Felicioli autori di Une vie de chat pure candidato all’Oscar. Accanto ai tradizionali film d’autore e di genere, si è sviluppato un cinema popolare che riesce ad affrontare anche temi difficili come il pregiudizio, l’handicap, la pedofilia (Polisse), la malattia (La guerre est déclarée). È l’immaginazione al potere da parte di una nuova generazione di attori, volti come Dujardin, Louis Garrel, Franà§ois Cluzet, Gilles Lellouche, Guillaume Canet e Omar Sy, il primo interprete di colore ad aver vinto il César qualche giorno fa. Artisti coetanei che spesso sono amici nella vita vera e amano lavorare insieme. Hazanavicius e la moglie Bérénice Bejo in The artist, oppure Les petits mouchoirs (“Piccole bugie tra amici”, in uscita in Italia), commedia amara diretta da Canet con Dujardin, Cluzet, Lellouche e Marion Cotillard, compagna del regista e premio Oscar nel 2008 per La vie en rose. È la sfida raccolta anche da giovani autrici femminili. La regista di Polisse, Maiwenn, e quella di La guerre est déclarée, Valérie Donzelli. Un cinema che insomma vuole credere in se stesso e non ha paura di osare. La favola a lieto fine di The artist che all’inizio nessuno voleva produrre. So frenchy.
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