Vietnamistan, perché le guerre non finiscono mai

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«Ogni guerra trova sempre la propria voce», fu scritto delle definitive memorie di reduci dal Vietnam raccolte dal tenente Philip Caputo. E oggi anche una guerra combattuta nel silenzio imbarazzato dei media, nel buio degli schermi tv, nella foschia dell’indifferenza collettiva, ha trovato le proprie voci, nei Marines della Compagnia B come “Bravo”, Primo battaglione, V reggimento. Ascoltarle, rileggendo le memorie di Caputo e le testimonianze dei reduci dal Sudest Asiatico significa ritrovare, con un brivido angoscioso di tutto già  visto, tutto già  sentito e già  vissuto, l’eterna condizione del soldato. I Marines della “Bravo Company” nel 2012, come quelli di Caputo nel 1968 sono perfettamente sovrapponibili e rinchiusi insieme in un stesso incubo, il Vietnamistan.
Nelle loro parole, raccolte finalmente non dai mezzi giornalisti embedded, insieme protetti e condizionati dal reparto che li assimila, ma da un fotoreporter che non ha ideologie da proteggere, risuonano come in un verbale fotocopiato tutti i sentimenti, la delusione, il coraggio, le paure che si trovano nei racconti dei reduci dal Vietnam. «Ci hanno trapanato in testa tutta la dottrina anti-insurrezionale, ci hanno addestrato, ma appena si cominciano a vedere i cadaveri e le membra dilaniate molti di noi se ne fregano e combattono soltanto per salvare la vita dei fratelli in uniforme», dice il caporale Manuel Mendoza, texano. «Non sogni di vincere nessuna guerra, ma di dormire fino a tardi al mattino», confessa l’infermiere Matthew Foreit di Chicago che teme di non riuscire mai a farlo davvero, dopo avere lottato invano per fermare con i lacci emostatici il sangue che sgorgava dai tronconi di gambe di un soldato finito su una mina, e che aveva «i testicoli che gli erano rientrati nella pancia». «Quando lo hanno caricato sull’elicottero, il cuore batteva ancora ed ero felice, poi mi hanno detto che era morto in volo, aveva perso troppo sangue, non ce l’avevo fatta». «I Taliban? E chi li vede mai. Sono ombre che ci sparano dalle colline, che ci attirano sui loro campi minati, sono chiunque sia oltre il filo spinato del campo, come facciamo a saperlo?» ammette sconsolato il sergente Jarick Fry, della Pennsylvania. 
I Taliban come “Charlie”, come i Vietcong nel gergo dei soldati, spettri letali, guerrieri vili e micidiali, che uccidono da lontano, che ti abbattono con la paura. Dunque provocano le stesse risposte, il controfuoco indiscriminato, i bombardamenti con “effetti collaterali”, la rabbia cieca che induce a pisciare sui cadaveri. E insegnano prima di tutto, e soprattutto, a battersi per portare a casa la pelle e quella dei «buddies», dei fratelli in armi. Tutti i soldati, in ogni fronte ed epoca, vi diranno sempre, se sono lontani dalle orecchie degli ufficiali, che la loro vera missione non è conquistare la collina, ma non tradire il camerata che ti sta accanto. «Sono tornato volontariamente per un secondo tour in Afghanistan», spiega un sergente. «La prima volta ci andai dopo l’11 settembre, per combattere il terrore, come mi avevano detto. La seconda volta ci sono tornato per insegnare ai pivelli come restare vivi e basta».
Vietnamistan. Guerre identiche separate da quarant’anni e da cinquemila chilometri ma perfettamente sovrapponibili e intercambiabili. Guerre necessariamente inconcludenti, senza fronti, senza obbiettivi strategici ben definiti, senza speranze di rese incondizionate e trattati di pace: «Sappiamo bene che i Taliban vengono dal Pakistan», scuote la testa un caporale della Bravo Company, ma non «possiamo invadere il Pakistan», esattamente come i Marines e i GI, i 500mila uomini del generale Westmoreland nel 1968 sapevano di non poter invadere il Nord Vietnam. Neppure la mostruosa superiorità  tecnologica, l’impari scontro di materiali e mezzi, serve a molto. «Oggi salviamo feriti che appena vent’anni fa sarebbero morti»: è l’unica vittoria dei corpsmen, dei portaferiti e paramedici che tamponano e cercano di stabilizzare i colpiti dai cecchini e sbranati dale Ied, le mine “improvvisate”, per il trasporto all’ospedale.
La scorsa settimana, in una grande palestra di un liceo di New York, centinaia di reduci hanno fatto la fila davanti ai banchetti allestiti dal Pentagono per cercare di trovare loro un posto di lavoro. Erano impieghi da guidatore di furgoni, da cuciniere, da infermiere, per i più fortunati, da guardia notturna di cantiere, cose del genere, una spanna sopra il livello di sopravvivenza per uomini spesso di trent’anni, e con moglie e figli a casa, congedati. Ne hanno sistemati 38, su 400 che erano in fila. Perché a questi della Bravo Company, Primo battaglione, V reggimento dei Marines e ai loro «buddies», non sputeranno addosso, come ai loro padri tornati dal ‘Nam. Non faranno finta di non vederli, come i nonni tornati dalla Corea, la guerra invisibile. Avranno feste e musica, ricevono applausi e retorica a secchi al Super Bowl, la finale del campionato di football. Ma che non pretendano anche un buon impiego. Sono tornati vivi, dal Vietnamistan: che cosa altro pretendono? Non ascoltate mai le voci della guerra.


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