by Editore | 23 Febbraio 2012 7:30
Esserci, star con gli altri / far le cose di sempre come loro, / o cara / o cara abitudine alla vita è il possibile splendore terrestre nella insiemistica antilirica e struggente di cose e uomini che Anna Maria Carpi porta sulla scena della sua pagina (L’asso nella neve. Poesie 1990-2010, Transeuropa, pp. 120, euro 10). Tutte le cose hanno pietà di noi, in esse sono contenute la rassicurazione e la costanza di un bene parentale. Ma qui è Cristo che parla. I poeti sanno (ricordiamo «solo» Rilke e Bonnefoy) che Dio prova invidia per la nostra mortalità , perché la bellezza è possibile solo nella finitudine. Forse Dio ci ha impastati con fango e tempo per poter ammirare la sfarzosa bellezza del nostro innalzare costruzioni nonostante la morte.
Che generosità sta veramente nel sacrificio di Dio che non è soggetto al tempo? Il tempo è la sola cosa che davvero possediamo e dunque davvero doniamo. Carpi, immersa nella metafora di una sera continua, regala tempo a una scrittura nella quale protesta: amore è dire all’altro non hai fine. O io sono immortale oppure niente. Che amore manifesta la morte di chi sa che al terzo giorno verrà rinato? Giusto lo stare in quel poco di sofferenza del corpo – ma è un dolore piatto, della carne, senza il dubbio e l’angoscia di una infinita oscurità ; giusto provare l’illusione di poter morire e di avere anche io – Dio – l’ostinazione di inspirare, espirare, inspirare nonostante la morte.
Eppure, questo Cristo di Carpi si permette il lusso di criticare l’ignavia delle creature definitivamente commensurabili e che vogliono essere salvate. Di nuovo: amore è dire all’altro non hai fine. O io sono immortale oppure niente. Questa è la notizia vera che il benevolo Cristo porta alla sua umanità . Invece il suo disamore, la sua empatia per la freddezza di Giuda, quanto sanno di invidia, povero Dio, destinato a rinascere la sua rinascita infinita. Cristo rimpiange di essere sul punto di morire eppure sa che non potrà mai veramente morire, parla del suo crudele amore per la bellezza. Ma abbiamo detto cosa sia la bellezza. Il cane nero che disordina definitivamente la forma disumana – la forma ignara, la forma della bestia – che insorge dal di sotto e dà la gioia. Giuda e il cane nero.
Amore, amore. / E poi non lo sopporti. Questo è il segreto. L’insopportabilità di quanto minaccia di essere infinito, di andare dove non arriviamo. La minaccia divina dell’amore che, nel futuro, sarà forse scongiurata, teme e prevede Carpi osservando nel casuale dirimpettaio di scompartimento un compagno corpo: un simile, una delle innumerevoli incarnazioni del tempo, qui nella forma di uomo bello, del quale vengono immaginati casa e sentimenti quasi tutti precari. Niente che lasci segni, niente che incida. Questo è il pericolo: essere bianchi come muri, non come le barche all’à ncora dell’inizio.
Ma se è vero che Dio è esattezza, certi poeti sono adunchi e solcati. La poesia è una forma preistorica con piccole mani palmate. Appare ferma e viceversa scatta, all’improvviso afferra le sue prede. Anch’esse, per quel poco, felicemente ignare. Ora la disperata vitalità di Pasolini è il rimpianto per la disperata leggerezza di quando si potevano perdere persone e cose perché davanti a noi c’era ancora tanto da conquistare. Ma quando mai io ero la mia carne? È con questa domanda che Anna Maria Carpi, in un libro solido e ossesso dalla prigionia nella finitudine del corpo, vorrebbe congedarsi dagli amici. Andar via come un soffio di vento.
Lei scrive da una solitudine dannata ma attraversata da una testarda ammirazione per quanto è vivo. Ed è continuamente in dialogo, cerca compagni – vivi o morti – sui treni, sugli aerei e nelle pagine dei libri. In questi testi scintilla allo specchio post mortem la bottiglia preferita di Vysockij come nella poesia di Luzi lampeggia il vestito verde di una donna infelice. Da un vivo, da un morto, che importa – se l’invocazione di Celan al Dio-Nessuno secondo Carpi non è a un Dio smentito dalla storia – ché qui anche l’angelo benjaminiano della storia è ricacciato indietro, nell’istante – ma a un Dio esistente. Si riconosce con gioia a questi versi il non nutrire alcuna volontà di compiacere, di consolare. Eppure, su tutto, veniamo avvolti da un amore disperato per il collettivo umano, per i cari altri, manifestato come una vocazione continua – perché uno non basta, è una malattia dell’anima, magari anche della mercificante anima contemporanea; magari anche chi scrive – sebbene scriva – è contaminato, è una rotella che consuma il volto di Cristo con le sue invocazioni, non è Cristo ma uno degli apostoli con il volto arato da un innocente bruto “io sono io”.
Non si sa. Siamo senza certezze perché io non esiste, oscilla tra il pericoloso ardore della grata rovente della felicità e altre improvvise accensioni, simili al vitalismo negativo di Leopardi: Che vuol dire fortuna? E perché mi tormento? Ma sappiamo che pochi poeti quanto Leopardi hanno amato la vita e compatito la bellezza effimera del mondo – e di sé nel mondo – e hanno visto tanto a fondo nelle cose da trovarne il rovescio, il piatto d’oro che – imprevisto e prevedibilissimo – mette una luce salutare sul nostro cuscino e tutto è d’oro, come nella bidimensionalità apparente delle icone, tavole sfondate dalla luce: davanti a quei rettangoli zecchini possiamo ridere della calamità umana con una leggerezza da ragazzini – da santi: dissennati, assennatissimi – contagiati da un raggio di sole.
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