Unione europea Vent’anni dopo Maastricht, l’eurocrazia mostra le rughe

by Sergio Segio | 6 Febbraio 2012 19:30

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L’atmosfera è da romanzo noir. Da un anno a Bruxelles la rotonda Schuman, su cui si affacciano le sedi delle istituzioni comunitarie, è diventato una babele urbana. Gru, betoniere, impalcature hanno preso possesso dell’epicentro amministrativo e politico dell’Unione europea (Ue), al quale la classica pioggerella grigia di Bruxelles dà  un’aria da periferia industriale.

I lavori non finiranno prima del 2014 e dei ritardi sono già  annunciati. Un simbolo impietoso. Qui gli “eurocrati” hanno il loro regno, sulle cui insegne sono ancora venerati i “padri fondatori”. Schuman ovviamente, Jean Monnet, Alcide De Gasperi e altri meno noti come Emile Noà«l, segretario generale della Commissione dal 1967 al 1987. Ma un altro nome torna ancora più spesso, quello di Jacques Delors, presidente dell’esecutivo comunitario fra il 1985 e il 1995. Il 7 febbraio 1992 l’ex ministro francese, sostenuto dalla coppia Kohl-Mitterrand, ha portato alla ribalta l’eurocrazia con la firma del trattato di Maastricht sull’Unione monetaria.

Delors, il leader che teneva testa ai capi di stato, piaceva alla stampa e incarnava l’Unione. Venti anni dopo Delors continua a calcare la scena; sarà  di ritorno a Bruxelles il 7 febbraio per commemorare Maastricht. Ma l’eurocrazia non ha più l’entusiasmo di quegli anni. Al contrario le fasi successive – con l’allargamento ad altri 12 paesi membri tra il 2004 e il 2007, il no francese e olandese del 2005 al defunto progetto di costituzione, l’adozione caotica del Trattato di Lisbona e poi la crisi finanziaria – l’hanno messa in ginocchio. Il dubbio ha cominciato a diffondersi nei 13 piani del palazzo Berlaymont, il quartier generale della Commissione che ospita i 27 commissari (uno per paese) e i loro collaboratori, liberato dall’amianto dopo lavori costosissimi.

“Nel passaggio da 15 a 27 abbiamo dovuto integrare quasi 15mila nuovi funzionari, in maggioranza provenienti dai nuovi stati membri. È facile immaginare il trauma portato da questo cambiamento”, ricorda un ex collaboratore di Neil Kinnock, ex leader laburista inglese e commissario europeo durante l’amministrazione 2004. Jean Quatremer, il corrispondente a Bruxelles per il quotidiano Libération, fa invece risalire la “rottura” al marzo 1999, data delle dimissioni della commissione presieduta dal lussemburghese Jacques Santer, travolta dagli scandali riguardanti il commissario francese Edith Cresson.

Gli anni 2000 vedono l’obiettivo della trasparenza sprofondare nel baratro: i concorsi diventano la regola, il carrierismo si installa nella burocrazia europea, l’inglese soppianta definitivamente il francese come lingua di lavoro, le lobby entrano nel sistema, l’esportazione delle norme europee viene adulata, il mercato unico e la concorrenza, diventati le priorità  assolute, impongono il predominio dell’economia e della finanza sulla politica.

Destabilizzando l’euro, la crisi del debito ha colpito al cuore l’amministrazione comunitaria, resa impermeabile alle critiche dal suo spirito di corpo. Diana, quarantenne greca capo unità  al Consiglio europeo, conferma: “La moneta unica ci ha dato un disegno, ma ha ucciso il nostro entusiasmo”. “L’introduzione dell’euro, identificando l’Ue a una moneta, ha trascurato i valori”, spiega lo scrittore Petros Markaris, anche lui greco e fine conoscitore dei meccanismi europei. “Il predominio della finanza ha impedito la comprensione della diversità  culturale. Abbiamo smesso di sognare, l’unico vero fermento comunitario”.

A tutto ciò la crisi aggiunge le complicazioni personali. La famiglia di Diana ad Atena riversa su di lei la rabbia contro i “diktat” di Bruxelles. Il motivo? I lauti salari dei funzionari europei – 3.500 euro lordi come stipendio di entrata, circa 18mila euro per i gradi più elevati a fine carriera – le poche tasse che pagano (al bilancio europeo), le scandalose offerte di prepensionamento a 50 anni con un assegno che può arrivare a 8mila euro al mese, le scuole europee riservate ai figli dei funzionari a Bruxelles e a Lussemburgo. Prerogative di un’élite che si protegge contro le convulsioni dei mercati.

L’ipocrisia degli stati

Il vento del populismo e del nazionalismo rischia di alimentare l’incendio. Sorvegliati e criticati dalla stampa, i funzionari europei sono diventati dei capri espiatori, senza neanche poter contare sulla difesa dei loro ex colleghi. L’ipocrisia, denunciano gli eurocrati, viene soprattutto dalle capitali: Parigi tuona contro gli stipendi di Bruxelles, ma si batte per mantenere la sede del parlamento europeo a Strasburgo. Lussemburgo conserva gelosamente la Corte europea di giustizia, dove gli stipendi vanno ben oltre i limiti fissati. I paesi membri si contendono le “agenzie” comunitarie, il cui numero dal 1992 è passato da 2 a 36.

“La crisi pone la questione cruciale della nostra legittimità “, riconosce un dirigente della Commissione. “Ma a parte il fatto che parlano diverse lingue, molti dei nostri colleghi hanno perso contatto con la realtà  europea. Non sono più un’avanguardia capace di correre dei rischi, formano come ai tempi dell’Unione Sovietica una nomenclatura preoccupata soprattutto di perdere i propri privilegi”.

Vero o falso? Karel Schwartzenberg sorride. Il capo della diplomazia ceca, che possiede anche la cittadinanza svizzera, è stato un fedele collaboratore di Và¡clav Havel. Schwartzenberg si ricorda lo sgomento dell’ex scrittore dissidente ceco eletto capo di stato, lui che amava tanto l’Europa delle idee. “Conosce per caso un’amministrazione attraente, soprattutto quando non parla la sua lingua e che si trova a migliaia di chilometri di distanza dal suo paese?”, chiede il diplomatico. Gli eurocrati, vittime dei casi della storia? “Quelli che sono stati assunti negli anni sessanta lavoravano per una bella donna chiamata Europa”, ironizza il principe. “Oggi la signora mostra i segni dell’età  e, come tutti noi, non ha più 20 anni”.

Traduzione di Andrea De Ritis

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