Una costituente non convincente
Il tema «ricerca, cultura e Humanities» diviene scottante, tanto da giungere in prima serata tv e meritare la pubblicazione, in prima pagina sul supplemento domenicale del «Sole 24 ore», di un Manifesto in cinque punti «per una costituente che riattivi il circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione». A distanza di circa dieci giorni dalla sua pubblicazione, il Manifesto del Sole 24 ore, a firma di Roberto Napoletano e Armando Torno, ha incontrato condivisione ufficiale e destato non poche perplessità . Tre ministri hanno firmato una lettera a Napoletano per appoggiare la campagna pro-cultura lanciata dal quotidiano confindustriale. A fronte di numerose adesioni e posizioni patriottiche, un’analisi politico-culturale del Manifesto è sinora mancata. Ci apprestiamo a produrla adesso, con il proposito di portare chiarezza e stabilire criteri che possano rendersi utili a un’opinione pubblica qualificata e indipendente. Si prevede di riservare altro alle discipline storiche e sociali che non sia un ruolo ancillare? Introduciamo, anticipando conclusioni.
«Big Society»: musei e restauri
Napoletano e Torno insistono sul principio della «complementarietà » o sussidiarietà , su cui molto ha scritto l’ex ministro del lavoro Maurizio Sacconi e che in parte richiama le retoriche conservatrici britanniche della «Big Society». Lo stesso principio è stato più volte richiamato dall’attuale ministro per i Beni culturali, Ornaghi, e appare sinora il criterio prioritario, se non esclusivo, dell’azione politico-culturale di quest’ultimo. Il Manifesto appare collocarsi politicamente, malgrado confuse enunciazioni e interminabili liste di desiderata, nel solco delle politiche educative (in larga parte neoclericali) che hanno sorretto i recenti processi di riforma universitaria, e che dialogano oggi con istanze tecno-economicistiche supportate (anche) dai partiti del centrosinistra.
L’insistenza sulla correlazione tra «cultura», «valori» e «territori» espunge «emancipazione» o «autodeterminazione individuale» dai compiti di un progetto formativo: lo Stato in quanto agenzia educativa viene meno mentre ci si adopera per consolidare vincoli di appartenenza e longevità di tradizioni culturali collettive. La prospettiva, che potremmo anche definire neo-guelfa, ha fallacie formidabili.
Quali politiche di inclusione, e quale percezione cosmopolite di società complesse possiamo attingere da punti di vista tanto localistici? Che ne è del binomio «bohéme + tecnologia» caro ai teorici della «innovazione»? È mai possibile che in nessun nodo dell’articolazione statuale vi siano poi codici o culture dell’intransigenza? Vale la pena ricordare come sia per Ornaghi, allievo di Gianfranco Miglio, quanto per Sacconi esiste un primato sociale e culturale regionale di Lombardia e Veneto. Cosa accadrebbe se lo Stato ritraesse i propri corpi tecnici, pedagogici e amministrativi (come le Soprintendenze) da regioni in cui esiste un controllo criminale del territorio? Se le università o le magistrature locali divenissero confraternite, sul modello delle misericordie, nella progressiva riduzione di validità di un ordinamento giuridico centrale? Quali sono i comportamenti ecclesiastici in materia di patrimonio storico-artistico e archeologico? E quali «sussidiarietà » vigono oggi a Roma o a Venezia: quelle di liberi cittadini uniti in communities o quelle corporate di multinazionali che adottano monumenti per trarne vantaggio pubblicitario e trasformare il territorio in parco a tema?
Non importa quanto aulici siano i propositi né quanta appassionata mobilitazione civile abbiano potuto produrre: se considerato in concreto, ad esempio sul piano della conservazione o «valorizzazione» del patrimonio artistico e archeologico il Manifesto del Sole 24 ore si schiera con imbarazzante superficialità a fianco di politiche neoliberiste di «valorizzazione» del patrimonio storico-artistico e archeologico che riducono di fatto quest’ultimo a merce, dequalificando le competenze specifiche, distaccando ricerca e conservazione, memoria e innovazione.
La Repubblica e la cultura
Si pecca di genericità quanto a indicazioni politiche, storiografiche, istituzionali. Esemplifichiamo. La metafora delle «macerie» o della catastrofe ricorre e sorregge argomentazioni cruciali. Ci si attenderebbero indicazioni trasparenti, chiare e documentate sulle responsabilità pubbliche: chi ha ridotto il paese in «macerie» comparabili a quelle del dopoguerra? Detto in altre parole: chi ha portato avanti la politica dei «tagli lineari», ammantando di considerazioni contabili un disegno di egemonia se non di epurazione sociale e culturale? Perché oggi sappiamo con certezza che precedenti governi, mentre tagliavano esigui assegni di disoccupazione agli attori e agli scenografi o bloccavano carriera e retribuzione dei ricercatori all’inizio della carriera, risultavano assai meno attivi sul fronte del contrasto all’evasione, alla corruzione o alla dilapidazione di risorse pubbliche via consulenze. «Chi pensa alla crescita senza ricerca, senza cultura, senza innovazione, ipotizza per loro (i giovani) un futuro da consumatori disoccupati, e inasprisce uno scontro generazionale senza vie d’uscita». Chi lo pensa? Giulio Tremonti? O magari Mariastella Gelmini? Roberto Calderoli? Vorremmo saperlo. Si agisca sul piano giornalistico il principio di responsabilità così nobilmente enunciato: si diano indicazioni nominative e circostanziate agli elettori.
Sul piano storiografico il testo di Napoletano e Torno manca di accuratezza e cognizione. Non si potrebbe pensare a niente di più sciatto della ricostruzione postbellica proposta. Sul supplemento culturale del «Sole 24 ore» scrivono eccellenti storici: si poteva chiedere loro consulenza, e attestare così de facto il rispetto per la competenza in Humanities.
«Anche la crisi del nostro dopoguerra», leggiamo, «a ben vedere fu affrontata investendo in cultura». In realtà la sensibilità della Repubblica per il tema «conoscenza» è stata storicamente deficitaria: lo raccontano intellettuali, accademici, uomini delle istituzioni come Argan, Bianchi Bandinelli, Brandi e innumerevoli altri, e lo attestano tra l’altro memorabili discorsi di De Gasperi, pure citato, in cui la ricerca è opposta come lusso proprio alla povertà della nazione. Come valutare poi l’affermazione per cui «le nostre città , durante quella stagione, sono state protagoniste della crescita, hanno costruito ‘cittadini’»?
Si è inteso richiamare, con il passaggio citato, l’abusato topos della mutualità come tratto distintivo della società (se non dell’impresa) italiana? È un topos caro agli ideologi di CL. Ma le obiezioni che si possono portare sono sfortunatamente formidabili: perché caratteri italiani sono pure illegalità diffusa e priva di sanzione sociale, trascuratezza del diritto e del merito individuale, omertà in ambiti sociali e professionali disparati e nelle regioni più diverse. Per quanto possiamo mobilitarci in suo soccorso, siamo costretti a concludere che la frase citata non ha alcun senso: colpisce trovarla in un testo sentenziosamente intitolato Niente cultura, niente sviluppo di cui sono autori il direttore del quotidiano di Confindustria e l’ex responsabile delle pagine culturali del «Sole 24 ore», attuale editorialista del «Corriere della Sera». Sono questi i campioni della ricerca, i custodi dell’alta cultura, dell’indagine critica e dell’argomentazione impeccabile? Perché si occupano di noi?
Quali progetti per le Humanities?
L’affrettata sommarietà induce a cercare il senso del testo tra le righe. Qual è il messaggio? Di che cosa si parla veramente quando si dice che «occorre una vera rivoluzione copernicana nel rapporto tra sviluppo e cultura»? Malgrado l’enfasi compassionevole, a noi pare che il ruolo riservato alle discipline storiche e sociali sia minoritario, o per essere più precisi propedeutico; e che la loro irrilevanza sia per così dire agita dagli estensori, tanto inosservanti di requisiti di rigore e limpidezza argomentativi. Allora chiediamo: la «costituente per la cultura» ha posto il problema del professionismo umanistico? Se sì, in qual modo e con quali prospettive? «La cultura e la ricerca innescano l’innovazione, e dunque creano occupazione, producono progresso e sviluppo».
Bene. Ma quale cultura? Tecnica, umanistica, d’impresa, sociale? È possibile essere meno generici? O magari più avvertiti del fatto che si lancia un appello dal giornale di Confindustria, organizzazione il cui responsabile educazione, Claudio Gentili, afferma che gli studenti dei corsi di laurea in studi umanistici acquisiscono «deboli capacità cosiddette decisionali (incertezza di fronte a un menù di scelte) e deboli capacità cosiddette diagnostiche (per esempio nella ricerca di informazioni online)»?
E ancora: le retoriche del «petrolio d’Italia» sono o no alle nostre spalle? Perché nella meritoria attenzione al patrimonio esibita da Napoletano e Torno non è chiaro quali politiche di «valorizzazione» si invochino. «Valorizzazione» come finanziamento dei centri di ricerca; processi qualificati, regolari e trasparenti di reclutamento/selezione; e incentivi retributivi, decisionali e di carriera a ricercatori di talento a prescindere da età , status accademico, famiglia di appartenenza; o mero commercio dell’aura storico-artistica e archeologica in chiave neocoloniale e neofolklorica? In breve: dovremo formare archeologi magnogreci o camerieri? Tassisti o storici dell’arte trecentesca?
Il tono alato del Manifesto si infortuna rovinosamente in prossimità di analisi e risposte specifiche, e non in un’unica occasione: potremmo perfino dire che insipienza e strumentalità si accompagnano stabilmente. «La dicotomia tra cultura umanistica e scientifica si è rivelata infondata», leggiamo. «Studi cognitivi dimostrano che i ragazzi impegnati in attività creative e artistiche sono anche i più dotati in ambito scientifico». Il riconoscimento è lodevole, anche se l’argomento può apparire puerile, condiscendente o fiabesco. Quali conseguenze scegliamo di trarne sul piano del finanziamento degli indirizzi di ricerca? Finanziamo corsi di laurea e dottorati in analisi testuale, restauro dell’arte contemporanea e iconografia o simpaticamente creiamo un’ora di ricreazione aggiuntiva in Humanities (come qualcuno già suggerisce) nei dipartimenti di economia aziendale e ingegneria? «È importante che l’azione pubblica contribuisca a radicare a tutti i livelli educativi, dalle elementari all’università , lo studio dell’arte e della storia per rendere i giovani i custodi del nostro patrimonio, e per poter fare in modo che essi ne traggano alimento per la creatività del futuro. Per studio dell’arte si intende l’acquisizione di pratiche creative e non solo lo studio della storia dell’arte».
Ammettiamolo: il passaggio è straordinariamente ambiguo. Lo «studio dell’arte» include, agli occhi dei promotori della «costituente», l’apprendimento di tecniche digitali di manipolazione di immagine, sessioni di skating e laboratori di make up? Piero della Francesca, Nike e L’Oreal? Tutto può contribuire all’«acquisizione di pratiche creative»: persino la stesura di Manifesti.
Un Foro per l’iPod?
Il testo diviene solenne quando si propone di interloquire con i decisori. «Strategia e scelte operative», si afferma, «devono essere condivise dai ministri dei (sic) Beni Culturali, dello Sviluppo, del Welfare, della Istruzione e ricerca, degli Esteri e dal Presidente del Consiglio. Inoltre il ministero dei (sic) Beni Culturali e del paesaggio dovrebbe agire in stretta coordinazione con il ministero dell’Ambiente e del Turismo». Comprendere chi decide cosa parrebbe non irrilevante: l’ordinamento gerarchico non è un dettaglio. Il Manifesto tuttavia in merito tace. La correlazione tra il Ministero delle Belle Arti e quello dell’Ambiente e Turismo desta particolare timore: la prospettiva «copernicano-rivoluzionaria» del Manifesto rimane dunque quella di Mario Resca, Direttore generale per la valorizzazione del patrimonio culturale? E quale è il compito del Ministro della pubblica istruzione, oggi con delega all’Innovazione? Istituire centri di ricerca o decidere che un insegnante è più costoso di un tablet? Nel novembre 2008 Resca offrì un suggerimento che siamo certi il ministro competente non tarderà a onorare. «Le rovine romane, da Ercolano a Pompei al Foro Romano, rappresenterebbero uno scenario spettacolare per lanciare prodotti», confidò Resca all’allibito intervistatore britannico di The Daily Telegraph. «Non vogliamo ‘mcdonaldizzare’ la cultura italiana», rassicurò, «ma desideriamo che le multinazionali scelgano l’Italia per lanciare prodotti come l’iPod».
* per Generazione TQ
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