Un (Bel) Paese Senza

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Un saggio di Ilvo Diamanti spiega perché, per uscire dalla crisi di oggi, sono sempre più necessari solidarietà  cooperazione e senso civico  Questo è un paese di “italiani nonostante”. Nonostante tutto, italiani (come recita il titolo di un volume di Edmondo Berselli). Il 2011 non è stato un anno come gli altri. Per l’Italia e sul piano globale è stato segnato da una crisi profonda, che ha scosso l’intero sistema delle relazioni e dei riferimenti territoriali, al punto da mettere in discussione le basi stesse della nostra identità  nazionale, rendendole meno efficaci e, in una certa misura, più fragili. Vale la pena di riflettere ulteriormente, anche se brevemente, sui mutamenti economici e politici avvenuti negli ultimi mesi, ma soprattutto sulle conseguenze che possono avere sull’identità  territoriale degli italiani. E viceversa.
Va detto, in premessa, che la “debolezza” e la frammentazione dell’identità  nazionale, che caratterizzano il nostro Paese, non costituiscono necessariamente un problema. Possono, al contrario, costituire anch’esse una risorsa, in quanto rendono più facile l’adattamento culturale, ma anche operativo, in tempi di fluidità  dei riferimenti territoriali. In un’epoca, cioè, nella quale sono cambiati e continuano a cambiare le cornici istituzionali, all’interno e all’esterno degli Stati nazionali.
Si pensi, a solo titolo di esempio, alle difficoltà  che incontra l’unificazione europea, ma anche al ruolo assunto dagli organismi supernazionali che regolano l’economia, la finanza e i mercati. Si pensi ancora, alle trasformazioni in atto nell’organizzazione territoriale dello Stato, in direzione del decentramento e del federalismo.
Un’identità  articolata e flessibile, come quella italiana, è certamente in grado di adattarsi a questi mutamenti molto meglio di altri paesi, dotati di riferimenti di valore e istituzionali forti e definiti, ma caratterizzati, anche per questo, da maggiore rigidità , sul piano sociale e culturale.
La crisi economica e finanziaria globale del 2011, però, ha, in parte, rovesciato questo schema. Ha, cioè, trasformato l’identità  “provvisoria” degli italiani in un limite, piuttosto che in un “vantaggio” adattivo e competitivo.
La “sfiducia pubblica” e la bassa densità  di “senso civico”, in particolare, sono divenuti ostacoli. Vincoli difficili da sostenere, di fronte alla necessità  di coesione e di coinvolgimento necessaria ad affrontare non solo i costi economici e fiscali, ma anche il rischio della dispersione “centrifuga” della società . La stessa vocazione a “fare da soli”, ad arrangiarsi a livello locale e familiare appare un problema, in una crisi che vede confrontarsi e scontrarsi le economie ‘nazionali’ nel teatro europeo e globale.
Oggi, in altri termini, appare difficile salvarsi da soli, “nonostante” lo Stato. Senza senso di “cooperazione”. In altri termini: senza civismo.
Un basso grado di civismo e di fiducia nelle istituzioni, infatti, indebolisce la legittimità  dello Stato non solo a livello interno, ma internazionale. A maggior ragione se si accompagna a un atteggiamento di distacco, per non dire disprezzo del sistema politico e dei partiti. D’altronde, in Italia, il sistema partitico è identificato con lo Stato nazionale.
Da ciò derivano conseguenze pesanti, nelle sedi negoziali internazionali: la Ue, in particolare. Ma anche sui mercati, che percepiscono la debolezza del sistema partitico e del governo come un moltiplicatore della crisi economica.
In un certo senso, il famigerato spread, entrato nel linguaggio comune durante la crisi finanziaria degli ultimi mesi, non definisce solo il differenziale tra i titoli di Stato italiani e tedeschi. È un indice della incredibilità  stessa dello Stato (e del sistema politico), garante della nostra economia di fronte alle istituzioni e ai mercati, in ambito internazionale.
Da ciò, una seconda conseguenza, che riguarda – e indebolisce – le radici stesse dell’identità  italiana. Infatti, se la nostra capacità  di adattamento non ci permette più di reagire alla crisi e alle difficoltà  economiche, allora la nostra stessa identità  sociale viene messa in discussione.
Perché l’arte di arrangiarsi, di trasformare i problemi in opportunità  è costitutiva del nostro “specifico” nazionale. Se non ci aiuta a risollevarci di fronte alle avversità , allora anche la fiducia in noi stessi si sfarina. Di qui il rischio di una spirale viziosa e auto-deleteria. Infatti, se le nostre arti e le nostre virtù nazionali non ci permettono, come in altre fasi, di superare la crisi, la crisi stessa ne corrode l’efficacia e la forza. Ne converte gli effetti: da virtù in vizi.
Lo stesso discorso vale per i nostri particolarismi e per le nostre differenze territoriali, che in questa fase rischiano di diventare fratture, elementi di divisione. Perché i costi della crisi sono elevati e lo Stato non è in grado di mediare, tanto meno, di imporre la propria autorità , ma deve comunque ridurre le risorse e i margini di autonomia degli enti periferici. I localismi rischiano, così, di produrre tensioni, di divenire dissolutivi.
Piuttosto che contro il contesto “nazionale”, i contesti locali minacciano di porsi in contrasto reciproco. Tra di loro. Modificando il modello tradizionale e sperimentato, che ci propone come un popolo di e italiani. Milanesi e italiani. Napoletani e italiani. Bolognesi e italiani. Marchigiani e italiani. In direzione di un popolo di milanesi, napoletani, bolognesi, marchigiani. E basta. Non siamo, ovviamente, alla dissoluzione del nostro modello. Tanto meno dell’Italia. Tuttavia, in questa fase assai più che in passato, una società  senza Stato rischia di scomporsi. E l’arte di arrangiarsi, senza civismo, non ci salverà .


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