Duemila morti per l’Eternit Sedici anni ai proprietari

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TORINO — Chissà  quando è iniziato tutto. Quando se ne sono resi conto, che morivano e nessuno poteva dirsi al sicuro. Forse è stato nel 1953, quando venne registrato il primo morto di mesotelioma, anche se allora non si chiamava così. Oppure nel 1969, quando in via Roma, la strada che attraversa il centro di Casale Monferrato, se ne andarono in sette nel giro di pochi mesi, allo stesso modo, annegati dall’acqua nei polmoni, gonfi della morfina che tentava di attenuare il dolore. 
Nella tribuna che accoglie i familiari se lo chiedono in tanti, mentre il giudice Giuseppe Casalbore legge l’elenco delle vittime e dei parenti, figli, nipoti, coniugi, che hanno diritto al risarcimento per quel che hanno patito. Alle 13.20 è stata pronunciata la prima parola della sentenza, quel «colpevoli» accolto da sospiri, da singhiozzi trattenuti. Ma l’elenco di nomi e cognomi va avanti per tre lunghe ore, ognuno di essi viene scandito con partecipazione, quasi un omaggio postumo. In quella litania c’è l’enormità  di questa vicenda, dello stabilimento Eternit che ha provocato la morte di migliaia di uomini e donne, non importa se lavorassero in fabbrica o vivessero nelle vicinanze. 
Adesso sappiamo che sono stati uccisi da una condotta dolosa, un modo giuridico per dire cinica e premeditata, decisa da dirigenti che hanno consapevolmente messo il profitto davanti alla salute dei lavoratori e degli abitanti delle città  che ospitavano le loro aziende. «Una sentenza che senza enfasi si può davvero definire storica» dice il ministro della Salute Renato Balduzzi. «Ma la battaglia contro l’amianto continua, nell’impegno delle istituzioni e dei cittadini». Il barone belga Louis De Cartier e il magnate svizzero Stephan Schmidheiny, i due proprietari della multinazionale dell’amianto, non sconteranno un solo giorno dei 16 anni di reclusione ai quali sono stati condannati per disastro ambientale doloso e omissione dolosa di cautele antinfortunistiche. 
Ma era nel conto, non è per questo che sono arrivati qui in 1.500 da Casale e da Cavagnolo, Rubiera e Bagnoli, le altre filiali italiane di Eternit. Neppure per i risarcimenti, che sono stati riconosciuti per un totale di 95 milioni di euro. Sembrano tanti ma sono solo l’inizio, perché fissati sotto forma di provvisionale, una sorta di anticipo che si potrà  riscuotere nel caso il procedimento civile non assegni cifre ritenute soddisfacenti, quasi una assicurazione sul futuro. La gente che si è svegliata all’alba per arrivare qui da Casale Monferrato chiedeva altro. Voleva giustizia, intesa come riconoscimento della propria storia e delle proprie sofferenze da parte dello Stato. 
E in quell’elenco interminabile sono sfilati i volti delle persone che non ci sono più, un mosaico di dolore che si compone in una storia folle e si spera irripetibile. I numeri non spiegano, non dicono, 1.830 morti per aver respirato il micidiale polverino d’amianto, altre 1.027 parti civili per persone colpite da asbestosi o altri mali. 
«Mio marito era bellissimo» dice Giuseppina, moglie di Renzo Pivetta, che per trent’anni ha confezionato camicie ben lontano dalla fabbrica, e il primo maggio 2008 stava tagliando l’erba nella sua casa di Terruggia quando sentì mancargli il fiato. Morì 27 giorni dopo. «Almeno ha fatto in fretta, si è risparmiato tormenti infiniti». Accanto a lei c’è un’altra signora che le tiene strette le mani e piange di nascosto. È Maria, la figlia di Luigi Giachero, che faceva la maschera nel vecchio cinema Politeama, poi divenne vigile e quando scoprì di avere il male dentro passò il tempo che gli restava a guardare gli astri dal telescopio sul balcone. «Credo che cercasse un perché nelle stelle, ma se n’è andato senza trovarlo». 
C’era Giuliana, sorella di Pier Carlo Busto detto Pica, che aveva 33 anni e ogni sera dopo il lavoro in banca andava a correre sugli argini del Po, senza sapere, e come poteva, che fossero impestati degli scarichi dell’Eternit. Morì alla vigilia di Natale, nel 1988, senza mai aver potuto prendere in braccio la sua Valeria, che aveva appena due anni. Sui manifesti listati a lutto la famiglia fece scrivere: «L’inquinamento da amianto ha tolto Pier Carlo all’affetto di chi lo amava», e fu uno schiaffo in faccia a una città  dove quelle morti venivano coperte dal silenzio, perché la realtà  faceva troppa paura. «Non esiste contropartita — dice Giuliana — per un vuoto così grande. Ma da oggi è proibito inveire contro il fato. La colpa è di persone che da oggi possiamo definire come criminali». 
Paolo Liedholm, nipote del grande Nils che allenò Milan e Roma, è qui per la mamma Gabriella, che era nata nel quartiere Ronzone, dove c’era lo stabilimento Eternit, e da giovane giocava a pallavolo sulle strade lastricate dal polverino d’amianto che l’azienda regalava, «generosamente» è scritto nell’atto di donazione, alla città . «Credo che questa sentenza serva soprattutto da monito» dice. «Mai più, non deve accadere mai più». Non ci sono frasi epiche o da scolpire nel marmo, tra queste persone semplici travolte da un male invisibile, colpevoli solo di essere cresciute nella città  segnata da una maledizione portata dagli uomini. Era importante esserci, era importante che qualcuno dicesse che è successo davvero. 
Neppure Romana Blasotti Pavesi ricorda quando tutto è cominciato. Si è tenuta dentro le lacrime per trent’anni, lei che ha perso il marito, la figlia, la sorella, un nipote e un cugino. Dopo, ha sempre detto, dopo piangerò. Non c’è riuscita, invece, perché il dolore ti prosciuga, ti trasfigura. «Vedremo ancora tanti amici morire e abbiamo ancora tanta rabbia e tanta strada da fare». Nell’ultimo anno a Casale Monferrato sono morti in 58. Un’altra decina di persone è ormai agli sgoccioli delle cure palliative. Nessuno ricorda come è cominciata la maledizione, nessuno può dire quando finirà .


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