Tutti pazzi per Gadda

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Quando arriva il momento culminante, Fabrizio Gifuni non è più Amleto, né Shakespeare, né il giovane tenente Carlo Emilio Gadda alpino della Grande guerra, né il maturo scrittore omonimo, né una sua reincarnazione letteraria come Alì Oco de Madrigal o don Gonzalo Pirobutirro, né alcun altro. All’improvviso appare proprio come Gifuni, e basta. Dopo un’ora di recita interrompe la sua parossistica sfuriata (grande prova di drammaturgo, attore e ginnasta), si rivolge al pubblico e dice qualcosa come: Ma secondo voi non è un po’ mostruoso…? Si riferisce al fatto che il corpo dell’attore possa davvero mostrare tutti i segni di una passione recitata e non realmente percepita. E per quanto lì Gifuni non sembri recitare, anche quelle sono parole di William Shakespeare.
Il monologo L’ingegner Gadda va alla guerra ha debuttato nel gennaio del 2010, è arrivato in questi giorni alla centesima replica in due anni e ne è appena stato pubblicato il testo (assieme alla registrazione in dvd di questo spettacolo e del precedente, nel cofanetto: Fabrizio Gifuni, Giuseppe Bertolucci, Gadda e Pasolini: antibiografia di una nazione, minimum fax). Lo spettacolo ha avuto molto successo, vinto molti premi, e parlando di Caporetto o di fascismo è pure parso come una delle più convincenti rappresentazioni dell’Italia del Duemila.
Gifuni, quel cartello esposto all’ingresso della sala che avverte il “gentile pubblico” che non c’è parte del testo che non sia stata scritta da Gadda o da Shakespeare era davvero necessario? 
«Purtroppo sì. Dopo le prime repliche troppi spettatori dicevano: “la prima ora è di Gadda e di Shakespeare, ma l’ultima parte l’avete riscritta voi, vero?”. Era un vero basso continuo. In alternativa veniva attribuita al mio ex professore di procedura penale Franco Cordero, ogni tanto al rimpianto Peppe D’Avanzo. Era un po’ imbarazzante. In realtà  è tutta tratta, virgole comprese, da Eros e Priapo, ma la rispondenza fra il Mussolini descritto da Gadda sessant’anni fa e il più recente Uomo della Provvidenza a molti sembrava incredibile nella sua precisione.
Ci sono “i tacchi tripli da far eccellere la su’ naneria”, la “psicopatologia erotica del Presidente del Consiglio…”. Era il gennaio del 2010 e ogni settimana la cronaca “illuminava” una diversa zona del testo. Per tre mesi di repliche ad esempio una battuta innocua come “Uno si crede Cesare perché fa inscrivere il nome Caesar su alcuni sassi. Sogna. Le genti sensate gli ridono in faccia” non faceva effetto. Poi si scopre che anche l’altro si faceva chiamare “Cesare”. Era comprensibile lo spaesamento temporale del pubblico».
Voleva fare della satira d’opposizione? 
«Non mi sarebbe mai venuto in mente. Lo spettacolo ha poco a che fare con l’incursione nel contemporaneo dell’ultimo quarto d’ora ma molto col carattere degli italiani. Dopo un’ora di Gadda tra la Grande guerra e il fascismo si salta su una macchina del tempo e ci si chiede: dove siamo? Che ci facciamo, qui?».
Non la preoccupava la difficoltà  del testo gaddiano? 
«Quello che mi preoccupava, semmai, era avere una platea di soli gaddisti o di intellettuali di sinistra compiaciuti. Non è successo proprio perché il contenuto è altro e Eros e Priapo è un’opera troppo indigesta per prestarsi a letture banali. Quanto a Gadda, forse ha ragione Umberto Eco quando dice che la gente è un po’ stufa delle semplificazioni obbligatorie. Per me poi vale il principio di piacere, l’ubriacatura che mi dà  il corpo a corpo con il testo. Se l’entusiasmo è autentico allora deve poter essere trasmesso anche a chi di Gadda non ha letto una riga, e riuscirci è responsabilità  dell’attore. Poi è chiaro che ci sono diversi livelli di lettura e chi ha più strumenti gode di più». 
In che senso i due monologhi su Pasolini e Gadda compongono l'”Antibiografia di una nazione”? 
«Piero Gobetti nel ’22 colse subito i connotati del flagello definendo il fascismo come “autobiografia della nazione”. Nei primi anni Duemila mi chiedevo: come siamo arrivati a tutto questo? In Gadda e nei diari tenuti da tenente degli Alpini, poi fatto prigioniero a Caporetto e detenuto in Germania, è centrale il tema della responsabilità , gli italiani “tranquilli quando possono persuadere sé medesimi di aver fatto qualcosa che in realtà  non hanno fatto”, il delegare e il dare la colpa sempre a qualcuno, nel migliore dei casi ai partiti politici, nel peggiore agli uomini della Provvidenza».
Lei definisce il monologo come la “tragica istoria di Amleto Pirobutirro”. Perché ha messo assieme Shakespeare e il don Gonzalo della Cognizione del dolore? 
«In Accademia ho lavorato per due anni solo su Amleto, con Orazio Costa. Tutta la mia classe lo sapeva a memoria ed era in grado di recitarlo tutto, in tutte le sue parti. Così quando ho letto, nella Cognizione del dolore, la scena in cui Gonzalo stacca il ritratto del padre dalla parete e lo calpesta mi ha subito ricordato Amleto che mostra alla madre i ritratti del padre e dello zio usurpatore, nel quarto atto. Individuata la pista olfattiva, l’ho percorsa come un segugio: ho scoperto che il capolavoro di Gadda era anche una delle più stupefacenti reinvenzioni novecentesche del paradigma di Amleto».
Gadda ne era consapevole?
«Gadda ha vissuto un’eterna catastrofe esistenziale, reale o immaginaria che fosse. Caporetto, la morte del fratello, l’amore negato della madre… Per lui l’Amleto non era una passione letteraria, ma molto di più: un’esistenza che si sovrapponeva. Nevrosi, malinconia, coscienza della propria statura intellettuale e morale in un mondo in disfacimento, la madre al centro di una ragnatela di bugie e di menzogne, da distruggere anche a costo di morirne. Poi in un documentario girato quando era molto anziano, gli chiedono cosa legga e Gadda bofonchia, con sguardo torvo “Rileggo solo lo Amleto”». 
Eros e Priapo è stato il modo in cui Gadda ha detto “C’è del marcio in Danimarca?”.
«Eros e Priapo è un simil-trattato di psicoanalisi scritto in un finto fiorentino cinquecentesco: perché scriverlo così, se non per una pulsione di morte, per dichiarare l’impossibilità  di stare al mondo senza arrendersi però al “not to be”? La cosa che fa di Gadda un Amleto è il farsi buffone per resistere a una morte in vita. Come Amleto diventa Yorick, il buffone idolo della sua infanzia, così Gadda scatena, toglie letteralmente le catene, a una lingua fantasmagorica, tragica e comica al contempo. La critica letteraria ha parlato di barocco, pastiche, sperimentalismo, categorie che per me non dicono molto perché non restituiscono il principio vitale della scrittura gaddiana. In questo il teatro è una cartina di tornasole».
Gadda parlava di “suprema funzione del teatro”, nel saggio sull’Amleto di Gassman e Squarzina. Lo aveva visto al Teatro Valle, che ora è occupato a causa dei noti tagli. Ma l’Italia rappresenta ancora sé stessa a teatro?
«Credo profondamente che il teatro sia uno dei pochi luoghi in cui sia possibile fare esperienza di un atto cognitivo totale, che investe i corpi delle persone oltre alle loro teste. Per questo è insostituibile. Non mi vengono in mente tanti altri luoghi in cui la comunità  si possa ritrovare per condividere quello che Gadda chiamava un atto sacrale di conoscenza».
E il cinema?
«Al cinema mi diverte moltissimo incontrare personaggi proposti da altri, come l’Aldo Moro che ho interpretato per il film di Marco Tullio Giordana, in uscita a marzo».
Si dice, con immedesimazione fisica sbalorditiva.
«A teatro il mio lavoro è diverso. Il settanta per cento dell’interpretazione è già  contenuta nel lavoro di drammaturgia fatto a monte. A quel punto si incomincia a “suonare” il testo, a metterlo in verticale anziché in orizzontale, staccandolo dalla pagina per farlo diventare carne e sangue».
Il suo amletico Gadda starà  in giro ancora tre mesi, in carica non ci sono più uomini della Provvidenza. È soddisfatto?
«Sono felice del viaggio straordinario fatto in compagnia di un grande artista come Giuseppe Bertolucci insieme alle parole di Gadda e Pasolini. Abbiamo lavorato per anni serenamente e sono arrivato da solo a certe piccole intuizioni grazie al teatro. Ho scoperto solo da poche settimane l’esistenza di tre paginette di Pasolini, intitolate “Progetto di uno spettacolo sullo spettacolo”, un piccolo soggetto teatrale in cui Gadda sogna di fare l’attore e il suo è un incubo perché è al centro della scena e non sa cosa fare, la gente lo deride… Il Gadda buffone immaginato da Pasolini, proprio come il mio, è stata un po’ la chiusura di un cerchio».
In quanto al pubblico, pensa di essere riuscito a far apprezzare Gadda?
«L’intento è di far qualcosa insieme a qualcun altro, non solo di far piacere un testo. Il teatro è un campo magnetico prodotto dal corpo degli attori e quello degli spettatori che si sono fatti carico di trovare biglietto, baby sitter, parcheggio… Il teatro non è né da una parte né dall’altra, né in platea, né sul palco: sta lì in mezzo. Dove si può attivare un principio inconscio per cui non pensi più solo all’attore o al fatto che Gadda sia difficile. Allora non c’è più il “sì, ma…”. E vuol dire che in quel campo magnetico è davvero successo qualcosa».


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