Tra le voci e i colori di Calcutta
Calcutta. Febbraio. Fiera del libro, di cui quest’anno l’Italia è ospite d’onore. Gran folla — la gente legge poco ma ama molto girare per padiglioni carichi di libri, in mezzo alla calca, mangiando gelati industriali e scattando fotografie. A Calcutta come a Mantova o a Torino. Qui la folla è fatta soprattutto di giovanissimi. La fila davanti al padiglione italiano si allunga come un serpentone colorato per trecento metri dall’ingresso. Nessuno di loro probabilmente ha mai letto Baricco o Elisabetta Rasy, ma aspettano pazienti, curiosi, di entrare nel cortile dove si parla di letteratura e si beve un buon caffè Lavazza (che pare stia conquistando con i suoi ottimi prodotti il mercato indiano), portandosi dietro un cartoccio di croccanti ceci abbrustoliti e salati.
C’è stato Severgnini, in dialogo con Tishani Doshi, c’è stato Baricco in dialogo con Kunal Basu, Italo Spinelli con Mahasweta Devi, Maria Pace Ottieri ed Elisabetta Rasy con Supriya Chaudhuri, il giovane Pietro Grossi con Shenan Karunatilaka, Valerio Manfredi con una lectio magistralis. Io stessa ho dialogato a New Delhi con una coltissima e combattiva scrittrice indiana: Urvasha Butalia e a Calcutta con una dolce e intelligente Mandira Sen. Ci sono stati i musicisti Cesare Picco, Guido Modarelli e Ganesh Del Vescovo. La gente è accorsa, pigiandosi nel cortile del padiglione dove, fra nuvole di zanzare e i tagli verticali di potenti riflettori, ascoltavano silenziosi le parole degli scrittori. Per fortuna non ci sono state le lungaggini delle traduzioni. Tutto in inglese e direttamente, in dialogo anche col pubblico.
I grandi temi trattati? Quale il ruolo dello scrittore? L’impegno esiste ancora? E in che cosa consiste? Cosa guida il mercato dei libri? Si legge ancora in carta o dobbiamo trasferirci sui mezzi elettronici? Esiste una discriminazione di genere? Quale è da considerarsi la lingua madre in fenomeni di emigrazione? Come reagire di fronte alla censura che tappa la bocca o peggio aggredisce e minaccia uno scrittore vivente, come è successo a Salman Rushdie o a Taslima Nasrin, tutti e due in polemica con l’estremismo islamico e da questo minacciati di morte?
Le risposte sono state varie e contraddittorie. Per alcuni lo scrittore non deve avere obblighi sociali ma solo artistici. Il mondo non lo riguarda se non come cittadino. Il giudizio deve essere dato sullo stile e non sui temi trattati. Uno di questi critici è Jeet Thayil, uno scrittore indiano pungente e aggressivo, che ha attaccato, attraverso giornali e rete, la scrittrice bengalese Nasrin dicendo che il suo libro Shame (Vergogna) è talmente brutto che sicuramente non l’ha letto nemmeno lei. E l’ha accusata di farsi pubblicità con la politica. Ma è profondamente ingiusto perché la Nasrin, il cui libro è vitale e comunicativo, è stata minacciata di morte per avere «offeso la morale islamica» e avere criticato i principi che guidano la famiglia tradizionale, difendendo la libertà mentale e spirituale delle donne.
Altri invece, come me, hanno sostenuto il compito di «testimonianza» dello scrittore. Che certamente non deve ridursi a fare solo il polemista o il politico, ma deve raccontare la verità . Al testimone che ha assistito a un delitto cosa si chiede? Non una verità assoluta e celeste, ma la verità dei fatti e delle cose: come era vestito l’assassino, era alto o basso? Aveva barba o no? Era biondo o bruno? Verso dove si dirigeva, eccetera. Il testimone racconta i fatti nei particolari che la Storia spesso trascura e quei particolari sono il sale della letteratura.
Mentre ascolto il buffo e spesso difficile inglese del pubblico indiano, vengo assalita da una nuvola di zanzare. Mi difendo con gli spruzzi di Autan che la graziosa e attentissima moglie del console Melchiori mi presta. Ne porta sempre in borsa una boccetta mi dice, raccontandomi del pericolo della Deng, puntura di una zanzara che provoca emorragie interne difficili da guarire. Anche se «il momento più pericoloso è quello che precede i monsoni». Il console Joel Melchiori è giovane e appassionato al suo lavoro. Pieno di buona volontà percorre ogni giorno due ore di viaggio andata e ritorno dal centro per assistere all’incontro vivacissimo fra la fiabesca e contraddittoria letteratura indiana con quella meno fiabesca ma altrettanto contraddittoria letteratura italiana.
L’idea comunque è nata nella testa giovane e piena di iniziative dell’addetto culturale di New Delhi, Cesare Bieller, che, assieme con la direttrice dell’Istituto italiano di cultura, Angela Trezza, sotto l’assistenza generosa e sollecita dell’ambasciatore Giacomo Sanfelice, si dedica con accanimento alla diffusione della cultura italiana in India. Cosa non facile perché si tratta di un immenso mercato con una minoranza di alfabetizzati che praticano una lingua colta e internazionale come l’inglese. Per il momento siamo più noi a tradurre in italiano e pubblicare autori indiani che loro a pubblicare autori italiani tradotti in inglese.
Calcutta è una città disordinata e caotica. La cosa che più colpisce è la sua sonorità . Le strade sono invase da automobili schiamazzanti che corrono, si sfiorano, gli autisti si sporgono urlando e continuano a premere la mano sul clacson. Fra di loro si aggirano le motorette, anche loro strepitanti, con sopra anche tre, quattro persone, spesso bambini, pigiati fra la madre e il padre. Più inquietanti i risciò traballanti: una portantina di legno tenuta su da due lunghe aste, alle cui estremità sta un uomo magrissimo e seminudo, spesso anche scalzo. D’improvviso, quando meno te lo aspetti ecco apparire in mezzo a questo traffico aggrovigliato e confuso un enorme elefante che batte i piedi larghi sull’asfalto, tenuto a bada dalla frusta di un indianino seduto sulla sua groppa rugosa. La spazzatura si accumula agli angoli delle strade. Ogni tanto un pastore manda le sue pecore a rovistare fra i rifiuti. O vi trovi dei maiali tondi e neri che grufolano, con dei corvi rapaci che se ne stanno ritti e fieri sulla loro schiena.
Il rumore assordante che sale dalla città bassa si intreccia continuamente con il rumore fragoroso che proviene dall’alto, dal cielo. Sono i corvi, i veri padroni di Calcutta: protervi, ladri, sicuri di sé, volano basso posandosi a due centimetri dai tuoi piedi, senza paura di niente. Si chiamano fra di loro con allegria, chiacchierano, litigano, battibeccano comicamente, senza smettere mai. Dobbiamo ricordare che qui è proibito uccidere animali. Si racconta che gli impiegati di mattina vanno in ufficio con una gabbietta in mano. Appena qualche topo esce allo scoperto, lo attirano nella gabbia con un’esca, la chiudono e la portano fuori, dove, a qualche centinaio di metri, lasciano libero l’animaletto, che spesso ritorna cocciutamente alla sua tana e alla sua famigliola affamata.
Sui giornali appaiono grandi ritratti di politici. Fra poco ci saranno le elezioni regionali e mMolti puntano sul figlio di Sonia Gandhi, Rahul, un bel ragazzo dalle idee moderne. Alcuni criticano Sonia perché ha fatto di tutto per evitare che i figli si buttino in politica. Difficile darle torto visto che qui, nel Paese del pacifico Gandhi, i piu popolari capi di governo sono stati uccisi da mani brutali, compreso lo stesso Gandhi, che pure era molto amato. Molti invece scommettono sulla figlia di Sonia, Priyanka, che assomiglia moltissimo alla nonna Indira e sembra che abbia lo stesso carisma. Per il momento si accontenta di portare avanti la campagna elettorale del fratello, ma in futuro, chissà ! Alcuni pensano che potrebbe essere una seconda Indira. «Ha lo stesso piglio e la stessa intelligenza rapida e profonda», dicono di lei. E fisicamente appare più «indiana» del fratello.
Gli italiani in India sono tanti, sempre di più. Turisti e gente che fa affari. Un mercato così grande attira naturalmente. Anche se poi chi compra sono pochi, i ricchi. E questa forse è la piu acuta debolezza di un grande Paese democratico come l’India. Un Paese che sta crescendo rapidamente, eppure non riesce a risolvere alcuni problemi elementari come la distribuzione equa delle risorse, non riesce ad assicurare alla maggioranza l’accesso ai beni primari: acqua, luce, cibo, circolazione. Gli autobus cascano a pezzi e sono scarsi, le strade sono una rovina, i treni sono quelli di un secolo fa, moltissimi sono i poveri senza tetto che dormono per le strade, mancano gli ospedali e le scuole.
Il turismo invece prospera. Si vedono molti europei e anche americani, con i pantaloni a bracaloni e la camiciola lunga fino alle ginocchia, i sandali alla fratina, che girano nomadi per il Paese. Pare che solo a Goa ci siano 20 mila italiani. Da cosa sono attratti questi viaggiatori in cerca di sogni? Cos’è che affascina tanto i nostri connazionali? Certamente il Buddha seminudo che appare inaspettato dagli altari improvvisati per la strada, con la sua compostezza, la sua saggezza, il suo distacco, il suo sorriso, è un motivo di richiamo. Venendo da una cultura che venera un Cristo colpito, ferito e inchiodato sulla croce, da una religione che esalta il dolore e il sacrificio, questo filosofo ardito che difendeva la venerazione degli dei ma poi li esautorava in nome di un pensiero profondo e distaccato, di una meditazione sorridente, ha qualche motivo di fascinazione. Eppure Buddha e Cristo hanno molto in comune: perfino qualcosa sulla loro nascita li rende somiglianti. Buddha, secondo il Buddhacarita, viene partorito da una giovane vergine che si chiama Maya o Mahamaya, rimasta incinta per la visita annunciata di un elefante, ha partorito senza dolore, da un fianco, un bambino considerato sacro. Appena adulto Buddha abbandona le sue ricchezze per rivolgersi ai poveri e agli esclusi, predica l’uguaglianza fra gli esseri umani, fuori dalle caste e dai privilegi, porge la mano agli ammalati e ai senza tetto, non badando alle divisione di casta e di censo, ma neanche a quelle di genere.
Da Buddha viene Gandhi, l’uomo che andava in giro per il mondo seminudo, privo di ogni bene («Non potrei esaltare la povertà da ricco»), l’uomo che ha dimostrato quante cose si possano cambiare senza tirare bombe, o usare il coltello, con la sola forza della resistenza passiva. L’uomo scalzo che ha predicato il rifiuto dell’odio e dell’avidità , che ha sempre condannato le differenze sociali cominciando dalle caste — oggi eliminate per legge ma ancora valide nel sentire comune — (ho imparato che le più intoccabili fra gli intoccabili sono proprio le donne e sapete che lavoro fanno? puliscono le latrine) l’uomo che ha predicato l’uguaglianza fra i sessi in un mondo profondamente sessista: «Si parla tanto della purezza delle donne. Ma cosa significa? Forse che le donne parlano della purezza dell’uomo?». La purezza non ha sesso e riguarda la generosità di pensiero e di cuore.
Gli italiani anche in letteratura si mostrano più curiosi, affascinati, incantati dall’India che gli indiani dall’Italia. Se pensiamo ai tanti libri che sono stati scritti, da Pasolini a Moravia, da Calasso a Sandra Petrignani, da Montanelli a Manganelli, non troviamo niente di simile dall’altra parte.
Calasso ha scritto sull’India Vedica una cosa giusta e poetica: «Si tratta di una civiltà dove l’invisibile prevale sul visibile». Moravia ha fatto un quadro politico e storico che risulta ancora attuale parlando della «povertà frenetica» che colpisce il viaggiatore occidentale, come colpisce l’urto con una religione politeista a fondo naturalistico. «La natura — scrive Moravia — non è trascesa dalla religione come in Europa, ma simbolizzata con il terrore della religione stessa, come lo era nei sacrari delle antiche religioni mediterranee». Pasolini si dilunga con pietas poetica sull’immenso «sottoproletariato agricolo» e su una borghesia che «esprime qualcosa di terribilmente incerto», suscitando un senso di pietà e di paura per la «sproporzione quasi disumana nei rapporti con la realtà in cui vive e in cui vivono le enormi masse che la circondano come un oceano». Giorgio Manganelli, in un libretto ripubblicato da Adelphi riflette, con uno stile pirotecnico e pieno di umorismo, su una India meravigliosa e mostruosa in cui si sprofonda come nel corpo di una «madre cenciosa». «Questo mondo non è accidentalmente sporco, lo è in modo essenziale, costante, pacato… Questo sporco non è il nostro, l’ombra di una civiltà che ha catturato le proprie deiezioni in gabbie immacolate, ma lo sporco originario, aurorale, quello sporco che noi abbiamo tradito, come abbiamo tradito tutt’intero il nostro corpo, col suo sudore, i suoi peli, i suoi genitali…». E, con piglio gaddiano parla di una «sgarbata felicità » che ci fa capire quanto siamo indegni di un mondo meravigliosamente invaso «dalla propria terrestrità ». De Cataldo invece scrive del dolore, raccontando con umiltà di un suo viaggio famigliare. «Se hai un dolore da qualche parte nel tuo profondo, Varanasi te lo riporterà alla luce. Ma non desidererai fuggire. Non volterai la testa dall’altra parte. Ti sottometterai a Varanasi. E il tuo dolore ti saluterà forse per sempre e diverrà una parte di te verso la quale non provare piu vergogna né rimozione». È questa la fascinazione della grande India?
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