Studiare l’estetica rileggendo Hegel
Negli stessi giorni in cui Hegel tiene a Berlino le sue lezioni di estetica, in un’aula accanto Schopenhauer mette in guardia i pochi studenti che lo seguono sui nefasti influssi della filosofia hegeliana. È il 1820. Sebbene entrambi insegnino nella prestigiosa università tedesca, solo la fama di Hegel brilla incontrastata. Ha da poco pubblicato I lineamenti della filosofia del diritto. Un’opera in cui la complessa analisi sullo Stato e la società civile, la loro giustificazione in una visione organica, fa da sfondo a una concezione della filosofia politica che ha diviso i suoi eredi tra destra e sinistra. Non si capisce bene se Hegel sia un reazionario, come vorrebbe la tradizione marxista. Oppure un liberale, come ritiene chi vede in lui il sottile interprete dei bisogni cresciuti con l’età della borghesia. In ogni caso l’arte non è estranea neppure alla politica, alle sue visioni del mondo.
Davanti a un uditorio affollato pontifica sui suoi destini. Ha alle spalle le figure putative di Winckelmann e Schiller. Non dice cose nuove. Ma le dice con grande autorità . Le sistema in un programma filosofico grandioso. Sostiene che l’arte, come del resto la religione e la filosofia, fanno parte di un movimento destinato ad approdare allo Spirito assoluto (che pure le precede). Sembrano giochi di prestigio. Ma non è così.
Alle lezioni dei primi anni Venti c’è chi prende appunti. Uno in particolare sembra dotato di grande tenacia. Si chiama Heinrich Gustav Hotho. Pende dalle labbra del maestro e annota tutto. A lui si deve questa edizione di Estetica (egregiamente curata da Francesco Valagussa), pubblicata da Bompiani. Si tratta di un’opera immensa. Diceva Gombrich che lo storico dell’arte deve studiare Hegel come lo studioso dell’arte ecclesiastica medievale fa con la Bibbia. Effettivamente, chiunque intenda misurarsi con le grandi questioni inerenti all’arte non può prescindere da questo testo. Come del resto non potrebbe fare a meno dalla Critica del giudizio di Kant.
L’Estetica di Hegel è in ogni caso più discorsiva dell’opera di Kant. Una volta afferrato il congegno che la regola – diciamo il movimento ascendente e conciliativo – non è difficile inoltrarsi nelle tremila pagine che la compongono. Si capisce che Hegel ha letto tutto, conosce ogni dettaglio delle cose di cui si occupa. Dal mondo egizio – pieno di risorse simboliche – a quello romantico che non ama affatto. E dentro questa straordinaria cavalcata ci sono pagine godibilissime dedicate al tema dell’onore e dell’amore, a Shakespeare e a Cervantes. Come pure scopriamo che è un acuto interprete della letteratura italiana. Gli anni di Berlino sono per il filosofo il trionfo, non solo dello spirito ma anche della carne. È mondano: va a teatro e all’opera, viaggia per mezza Europa. Frequenta belle donne e belle menti. L’unica cosa che non tollera sono le rivoluzioni. L’Europa (ma siamo già nel 1830) è attraversata da tumulti e rivolte liberali che egli stigmatizza, in perfetto stile prussiano.
Ma torniamo all’Estetica, la cui fama si lega a un concetto ambiguo che Hegel espresse e non espresse. Quello della “morte dell’arte”. La cosa ci riguarda troppo da vicino per non sapere cosa intendesse con il gioco di negazione e conservazione: l’arte – che contiene in sé il suo superamento – si invera nello Spirito Assoluto. Quello stesso Spirito che nelle ultime pagine dell’Estetica frequenta i bassifondi del comico. Non è trascurabile che un tale monumento all’estetica e alle sue visioni del mondo, si concluda con la commedia, cioè con il genere che porta alla dissoluzione dell’arte in generale. Certo, per Hegel l’arte riguarda soprattutto il passato. È la condizione affinché essa si superi e si realizzi in qualcos’altro. E tuttavia la dissacrante forza del comico, in grado di demolire il fondamento, rende la chiusa hegeliana una situazione molto prossima al nostro stato d’animo. A ciò che il Novecento ha conosciuto come impossibile ritorno alla metafisica.
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