Stavolta Pechino deve rischiare

by Sergio Segio | 28 Febbraio 2012 11:44

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Dunque, il cambiamento in Cina è routine. Ora, in un nuovo rapporto intitolato «Cina 2030», la Banca Mondiale afferma che il Paese è giunto a un punto di svolta.
Potrebbe – dicono gli autori del documento – continuare a crescere rapidamente per i prossimi due decenni, seppure a un tasso più moderato del 6-7 per cento annuo, e potrebbe conseguire questo risultato senza distruggere l’ambiente di tutto il pianeta o la propria società . Ma solo a condizione di un cambiamento sostanziale.
Le proposte di cambiamento contenute nel rapporto della Banca Mondiale sono piuttosto comuni e convenzionali, sia perché l’argomento è già  stato affrontato da altri analisti, sia perché il rapporto è stato scritto in collaborazione con i rappresentanti del governo cinese. La questione più interessante non riguarda le proposte in sé – che consistono essenzialmente nel diventare più innovativi, verdi, egualitari e privatizzati – bensì quanto il cambiare possa davvero restare l’eterna routine cinese.
In linea di principio, è possibile. Uno dei motivi è che si tratta di un Paese così vasto e vario. Lo sviluppo può migrare geograficamente, e lo sta facendo, esattamente come fanno già  i lavoratori cinesi. Con una popolazione di 1,3 miliardi di persone, la Cina è quattro Americhe in un solo Paese. E come gli Stati Uniti nella loro storia hanno spesso fatto grandi progressi in alcune regioni, spostando sia la localizzazione che la natura della crescita, così la Cina può fare altrettanto. E ciò le conferisce una flessibilità  interna.
La seconda ragione è il grande pragmatismo, che risale all’ascesa alla guida del Paese di Deng Xiaoping nel 1978. «Non importa se il gatto è nero o bianco, basta che dia la caccia ai topi», disse in una sua famosa frase. E quindi, le politiche sono cambiate, rispondendo ai problemi che sorgevano come alle nuove opportunità  che si aprivano. Il Partito comunista cinese in realtà  non ha un’ideologia che vada oltre l’imperativo di conservare il proprio potere e sopravvivere.
Negli ultimi decenni sono state scritte tonnellate di libri e articoli che predicevano l’imminente collasso della Cina. Di solito, l’argomentazione si basava sull’idea che il Paese stesse applicando politiche economiche sbagliate, o che stava andando incontro alla destabilizzazione politica e a una rivolta contro il Partito comunista. Tutte queste previsioni si sono rivelate sbagliate. Le previsioni economiche di regola hanno sottovalutato la flessibilità  della Cina, la sua capacità  di assorbire i problemi, gli choc e gli sprechi. Le previsioni politiche hanno sottovalutato la flessibilità  e la resistenza del Partito comunista, così come la tolleranza dei cinesi nei confronti di un governo autoritario, a condizione che i loro redditi e le loro opportunità  continuassero a migliorare.
Ma non si può contare in eterno né sulla flessibilità , né sulla resistenza, nel campo economico come in quello politico. In realtà , la maggiore preoccupazione è – o dovrebbe essere – la possibilità  che la flessibilità  e la resistenza possano venire in contraddizione l’una con l’altra, in modi che la Banca Mondiale è stata costretta a descrivere in modo fin troppo educato.
La forza e la resistenza del Partito comunista e dei suoi strumenti di governo sono stati costruiti in una maniera brillante: fin dalla morte di Deng nel 1997, il partito si è trasformato dalle sue vecchie origini ideologiche e rivoluzionarie dei tempi di Mao, per diventare essenzialmente una burocrazia meritocratica. Nessuno può più avere il potere che avevano avuto il presidente Mao e poi lo stesso Deng. Ora i leader sono soggetti a rigidi limiti temporali di mandato, e tutte le cariche nel partito vengono sottoposte a regolare rotazione. Uno di questi avvicendamenti incombe quest’anno, quando il presidente Hu Jintao e il suo premier, Wen Jiabao, si ritireranno al 18Ëš Congresso in autunno, dopo nove anni in carica, e verranno sostituiti – o almeno così si pensa – da Xi Jinping e Li Keqiang. Questa rotazione al vertice, insieme a quella di tutte le cariche di partito, serve a tenere la corruzione almeno parzialmente sotto controllo, e a evitare devastanti lotte di potere. Finora, questo sistema ha funzionato in maniera superba.
L’altra cosa che fa questo sistema, però, è incoraggiare la timidezza e la gradualità . Il presidente Hu è stato al potere per quasi dieci anni, ma non lascerà  riforme o trasformazioni maggiori associate al suo nome. La Cina non pratica più «grandi balzi in avanti» promossi con risultati devastanti da Mao negli Anni 50. La sua burocrazia è troppo conservatrice. Nessuno vuole correre rischi, o almeno così appare.
Il tipo di proposte avanzate dalla Banca Mondiale, e discusse da analisti e funzionari cinesi, richiede invece dei rischi. Nelle ultime settimane si è assistito a un improvviso attacco di sincerità  da parte di funzionari legati alla Banca centrale cinese, che hanno esortato una liberalizzazione più rapida dei mercati del capitale, addirittura della convertibilità  della moneta. Ma questo sarebbe rischioso. E’ poco probabile che la leadership uscente voglia correre un tale rischio, e non sappiamo ancora se la nuova dirigenza sarà  più spavalda.
Il pragmatismo e il diffuso desiderio di continuare a crescere, a tirare ancora più cinesi fuori dalla povertà  e a trasformare la Cina in un Paese ricco, potrebbero alla fine spingere la burocrazia a essere più flessibile. Ma ciò non è inevitabile. I sistemi, anche quelli di maggior successo, possono diventare calcificati e bloccati. E’ accaduto al Giappone negli Anni 80 e, in maniera diversa, sta accadendo all’Italia. Interessi particolari si trincerano. L’establishment diventa conservatore. E questa è oggi la maggiore minaccia alla crescita, anche della Cina.

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