Spariti? Gli indizi sull’arrivo
Eppure chiunque abbia passato una giornata con Imed Soltani, Noureddine Mbarki e Meherzia Rouafi armato di questa solida certezza, ne è uscito con le ossa rotte e una domanda angosciante: che fine hanno fatto questi ragazzi? Perché i tre componenti della delegazione che rappresenta i parenti di 256 giovani tunisini partiti a marzo per l’Italia sono forniti di un dossier ben fatto e accurato, frutto di un anno di ricerche. La loro è diventata una certezza incrollabile: «Sono arrivati in Italia». Ecco quali sono gli indizi che hanno raccolto. Su queste basi gli avvocati Simona Sinopoli e Fabio Baglioni presenteranno un esposto.
La prima imbarcazione
E’ partita il 1 marzo 2010 intorno alle 23 dal porto di al Hawariya vicino a Tabarka. La barca si chiama “Chahine”, e non è più tornata indietro, cosa che invece faceva di solito essendo una specie di “linea express” Tunisia-Italia. Naufragio? Fatto sta che sulla barca c’erano 22 persone. E 22 persone sono arrivate a Linosa nella notte del 2 marzo – come hanno confermato anche al manifesto i carabinieri dell’isola. Tutti sono stati trasferiti il giorno dopo ad Agrigento e da lì tradotti nel Cie di Caltanissetta. Purtroppo quando la delegazione si è recata a Caltanissetta non sono stati fatti entrare, ma lì Imed Soltani – che sta cercando i suoi due nipoti imbarcati sulla “Chahine” – ha avuto le risposte che cercava: «Ho mostrato le foto ai mediatori culturali – racconta – i quali mi hanno detto di aver riconosciuto i ragazzi». Non solo: i nipoti di Imed sono partiti con sette amici dello stesso quartiere (Babjdid a Tunisi). In quel quartiere per tutto il mesedi marzo il telefono ha squillato spesso la notte. «Chiamavano tra le 3 e le 4 – dice Imed – telefonate mute. Solo una sera una donna ha sentito suo figlio dire ‘mamma, mamma’».
La seconda imbarcazione
E’ partita il 14 marzo intorno alle 5 da Jbeniana vicino a Sfax. A bordo 61 persone, tra cui il figlio di Meherzia Rouafi, Mohammed, e un suo caro amico, Atef. Il giorno prima, il 13 marzo, sono stati segnalati molti naufragi. Intorno alle 21 del 14 sono quattro le mamme che ricevono telefonate dai propri figli: «Il telefono di mio figlio era spento ma io ho parlato con Atef», dice Meherzia. Il contenuto delle telefonate è più o meno simile: «Siamo vicino a una montagna, lo scafista vuole farci scendere qui ma noi non vogliamo. Adesso ha chiamato al Guardia costiera». E un’altra «Ora siamo al molo, ma non ci fanno scendere». Meherzia riconosce suo figlio in un video girato dal Tg5 a Lampedusa, anche se la sequenza dura poco: «Ma lui parla, e io riconosco la sua voce», sostiene. L’indizio più consistente, però, è un altro. Lo scafista dell’imbarcazione, di cui si conosce il nome, sarebbe in arresto in Italia: è una notizia che ha dato la moglie dello scafista al coordinamento delle famiglie, e che sarebbe stata confermata da fonti tunisine.
La terza e la quarta imbarcazione
La sera del 29 marzo partono sei imbarcazioni dal sud della Tunisia. Il coordinamento indaga sulla scomparsa di due barche partite da Sidi Mansour con a bordo 61 e 68 persone. Tra cui il figlio di Nourredine Mbarki. Qui a supportare l’idea di un arrivo ci sono vari filmati girati a Lampedusa sia dai tg che dalle reti sociali presenti in quei giorni di inferno nell’isola. Non solo Nourredine riconosce suo figlio, ma anche gli altri genitori riconoscono i propri. C’è inoltre una telefonata, arrivata al genero di uno dei ragazzi scomparsi qualche giorno dopo lo sbarco. Purtroppo a quella telefonata nessuno ha risposto, e solo il giorno dopo è stato richiamato il numero. Dall’altro capo del filo un ragazzo: «Ieri ho prestato il mio telefono a un tunisino». Nome e descrizione corrispondono all’amico del figlio di Nourredine: «Siamo nel centro di Manduria – ha aggiunto il ragazzo – ma loro sono stati tutti trasferiti stamattina».
Coincidenze, forse troppe. Per i genitori sono prove dell’arrivo dei figli in Italia. Non se ne andranno a mani vuote, ora che in Tunisia l’emigrazione non è più reato. E finalmente si può gridare al mondo che queste vite contano.
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