Siria, una rivoluzione civile

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Da undici mesi, in Siria, la vita quotidiana è scandita dalle manifestazioni. La più importante è quella del venerdì. Il rituale si ripete immutabile: come oggi, 20 gennaio, a Baba Amr. Appena conclusa la preghiera di mezzogiorno, in moschea gli uomini lanciano il takbir, «Allahu akbar!», e si riversano all’esterno. Fuori gli attivisti aspettano, tra nugoli di bambini, con bandiere e striscioni. Il corteo si forma, sfila per i vicoli, poi percorre un viale scandendo slogan e brandendo cartelli e fotografie di martiri, sotto un edificio dove a volte sono appostati cecchini del regime. Gli incroci sono sorvegliati da uomini dell’Esl, l’Esercito siriano libero, armati. Assieme ad altri cortei confluisce in una grande strada che attraversa il quartiere. Salgo su un tetto con alcuni attivisti che filmano la manifestazione, per avere una visione d’insieme: sono almeno duemila persone, forse anche tremila. «Se non sparassero sui manifestanti, – mi dice un vecchio signore, – tutta Homs sarebbe in strada». Al centro, centinaia di giovani allineati su varie file, tenendosi sottobraccio, gridano di nuovo il takbir e cominciano a saltare al ritmo dei tamburi e dei canti rivoluzionari intonati dai capi, ritti su una scala in mezzo a un cerchio di danzatori. Da una parte, una massa di donne velate, un mare di foulard bianchi, rosa o neri, con bimbi piccoli e palloncini, lancia i caratteristici youyou e ripete, con gli uomini, gli slogan dei capi. Intorno, la gente si accalca sui balconi. C’è un clima di folle allegria, di gioia sfrenata, disperata. 
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Alla fine della manifestazione vengo circondato da decine di giovani, che tentano disperatamente di comunicare con quattro parole di inglese. Ognuno mi mostra le sue cicatrici: manganellate, bruciature da elettricità , ferite da proiettili o da schegge di granata. Uno ha avuto il fratello ucciso da un cecchino mentre attraversava la strada, la madre di un altro è morta sotto un bombardamento; tutti vogliono raccontare tutto, subito. Brandiscono il cellulare: «Shuf, shuf, guarda!» Un cadavere pieno di lividi delle torture, un altro con il cranio sfondato, su un altro ancora la videocamera indugia mostrando ogni ferita, all’inguine, alla gamba, al petto, alla gola. Succede dovunque si vada. In un punto di primo soccorso ad al-Khaldiye, nella zona nord della città , una giovane infermiera sfodera lo smartphone prima ancora che arrivi il tè: sullo schermo un uomo agonizza mentre un medico tenta vanamente di intubarlo, lì sul pavimento, ai piedi del divano su cui ora sono seduto io. Era un taxista, si è preso un proiettile in faccia e giace in un’enorme pozza di sangue, il cervello sparso a terra. «Vedi queste mani? – dice l’infermiera. – Sono le mie». Passa al filmato successivo, arriva il tè, lo bevo senza staccare gli occhi dallo schermo. A Homs ogni cellulare è un museo degli orrori.
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La stessa sera, sempre ad al-Khaldiye, nuova manifestazione. In un angolo della piazza centrale troneggia una copia in legno, dipinta di nero e coperta di fotografie di martiri, del celebre vecchio orologio di Homs, che risale all’epoca coloniale francese: adesso il “centro città ” è qui. Proprio in questa piazza avverrà  il massacro del 3 febbraio, il giorno dopo la mia partenza: circa centocinquanta vittime delle granate. Un grande striscione sottolinea la fedeltà  dei manifestanti al Consiglio nazionale siriano: «No all’opposizione immaginaria, invenzione delle bande di Assad. Il Cns ci tiene uniti, le fazioni ci disperdono». Le vie tutto intorno sono invase da montagne di spazzatura; da quando è cominciata la rivolta il Comune non manda più i netturbini nei quartieri dell’opposizione. I canti e i balli, che assumono la forma del dhikr, le danze mistiche dei sufi, esaltano la folla, i capi lanciano gli slogan: «Idlib, siamo con te! Talbisah, siamo con te! Rastan, siamo con te fino alla morte!» La determinazione delle comunità  di rimanere unite di fronte al regime è esplicita: «Noi non ci ribelliamo contro gli alauiti o contro i cristiani! Il popolo è uno solo!». «Wahad, wahad, al-shaab al-suri wahad!», urlano i manifestanti, «Il popolo siriano è uno solo!» In piedi sulle spalle di un uomo, Mahmud, un bambino di una decina d’anni con i capelli rossi, incita la folla che canta la hit del poeta assassinato Ibrahim Qashush, «Vattene, Bashar!».
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Ciò che colpisce, in queste manifestazioni esuberanti, è la straordinaria potenza che sprigionano. Non sono soltanto un atto liberatorio, uno sfogo collettivo di tutta la tensione accumulata giorno per giorno: ricaricano i partecipanti, danno loro quotidianamente un po’ più di vigore e coraggio per continuare a sopportare le uccisioni, le ferite e i lutti. Il gruppo produce l’energia, e ogni individuo la assorbe: la musica e i balli servono anche a questo. Non sono semplicemente sfide o parole d’ordine: come il dhikr sufico, generano e captano forza. La rivoluzione siriana – cosa rara – non resiste solo grazie alle armi dell’Esl, o al coraggio dei ribelli: resiste grazie alla gioia, al canto e al ballo. 
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Le parole d’ordine, l’opinione dei quartieri su temi scottanti come la fedeltà  al Cns o l’intervento militare straniero non emergono soltanto nelle manifestazioni. Anche la moschea svolge un ruolo essenziale. In un quartiere della città  vecchia, venerdì 27 gennaio l’imam cita i Compagni del Profeta, in particolare Abu Bakr, per insistere sulla solidarietà  tra gli abitanti. La voce sale, assume toni acuti quando ricorda i morti del quartiere. «Dio è grande!» scandiscono in coro i fedeli. «Tutto questo sangue versato, – grida l’imam, – è il nostro sangue, tutte queste anime uccise sono nostri figli. Ma comunque noi diciamo agli oppressori, a chi ha passato la misura: “Qualunque cosa facciate, la vittoria sarà  nostra!”». Qui il rituale rinsalda e compatta la comunità . La sua volontà  collettiva, espressa nelle conversazioni durante la settimana, è focalizzata dalla predica; grazie alla predica, più che a qualunque altro meccanismo sotto questa lunga dittatura, si può parlare di un'”opinione pubblica”. Poiché i mukabarat, i servizi di sicurezza del regime, impediscono di visitare il quartiere cristiano o alauita, purtroppo non avrò modo di giudicare come vadano le cose lì.
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Ultima componente di questa realtà  stratificata che è la resistenza civile: gli attivisti. Ad al-Bayada, un quartiere poverissimo che confina con al-Khaldiye, un attivista locale, Abu Omar, ci fa visitare le strade, ci mostra le tracce delle granate, i viali con i cecchini, la gente che abbatte gli olivi per scaldarsi. Davanti a una bottega che vende mandorle veniamo circondati da una folla di bambini, e un bel ragazzo di diciassette anni, in tuta blu, apostrofa Mani: «Hanno arrestato mio padre, hanno arrestato mio fratello, hanno picchiato mia madre! Sono venuti ad arrestarmi, e se mi trovano, mi ammazzeranno! Tutto perché esco in strada e dico che non mi piace Bashar!» È il capo della manifestazione locale. Tende il collo e lo pizzica all’altezza della glottide: «L’unica arma che ho è la mia voce!». Si gira, alza le braccia e improvvisa una dimostrazione della sua arte, intonando un canto rivoluzionario. Un altro ragazzo lo accompagna con un tamburo tenuto sotto l’ascella, i bambini ripetono il ritornello battendo le mani, la sua voce è limpida e bella nella luce della sera. Ma lui è consapevole del pericolo che corre. Il giorno precedente avevamo assistito a una manifestazione nella città  vecchia; oggi il suo capo, Abu Annas, sta tra la vita e la morte, gravemente ferito al petto da una granata sparata da un blindato.
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Il ragazzo che ci aveva accompagnati a quella manifestazione nell’intento, frustrato, di testimoniare in diretta su al-Jazeera, si fa chiamare Abu Bilal. È un attivista dell’informazione, uno di quelli che hanno il compito di documentare quotidianamente la repressione. Abiteremo per vari giorni con lui e con i suoi amici, nascosti in una casa della città  vecchia, a poche centinaia di metri dalla cittadella di Homs, da dove le forze del regime mitragliano incessantemente le strade. Ogni mattina ci ammassiamo su un’auto con due o tre membri di quella troupe che, sfidando i cecchini, parte a filmare funerali, feriti e morti. Omar Telaui, di Bab Sbaa, è uno dei più noti. Compare nei video a volto scoperto, una sciarpa con i colori della rivoluzione avvolta intorno al collo, scandendo per ogni vittima qualche parola rabbiosa sulle circostanze, il luogo, la data. Alla sera, non appena tornano a casa, Omar, Abu Bilal e gli altri si precipitano al computer. Grazie a una vacillante connessione Internet caricano i filmati su YouTube, diffondono i link tramite i social network e rilasciano interviste a stazioni televisive, quasi tutte arabe.
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Sono fonti che i media occidentali utilizzano pochissimo, spesso in base al principio che in assenza di un proprio reporter sul campo questi filmati dell’orrore «non possono essere autenticati». E invece queste immagini, a volte tremolanti, delle atrocità  commesse dal regime siriano, colte a distanza ravvicinata, rappresentano un inestimabile lavoro di informazione, per il quale chi le realizza rischia la vita ogni giorno. Come mi dirà  una sera Abu Slimane, un attivista di Baba Amr: «I nostri genitori sono stati assoggettati con la paura. Noi abbiamo infranto il muro della paura. Comunque vada: che si vinca o che si muoia».


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