Siria, bombe sui reporter occidentali due morti nell’assedio di Homs

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BEIRUT – La tragedia siriana ha bruciato le vite di altri due giornalisti, il fotografo francese Remi Ochlik e la prestigiosa corrispondente di guerra, americana di nascita ma inglese d’adozione, Marie Colvin, del settimanale Sunday Times. Entrambi sono stati uccisi ieri, verso le dieci del mattino, nell’ennesimo bombardamento scatenato dalle truppe fedeli al presidente Bashar el Assad contro la città  ribelle di Homs, e segnatamente contro il quartiere di Bab Amro, roccaforte dell’insurrezione. Con i reporter uccise almeno altre venti persone. Ad essere stata colpita ripetutamente dall’artiglieria è stata la casa in cui l’opposizione aveva allestito una sorta di centro-stampa per i cronisti stranieri entrati clandestinamente in Siria per raccontare il conflitto dalla parte degli insorti. Oltre ai due uccisi, almeno altri due giornalisti sono stai feriti, la francese Edith Boumier de Le Figaro e il fotografo inglese Paul Conroy, anch’egli del Sunday Times.
Nello stesso bombardamento hanno perso la vita, secondo fonti dell’opposizione, 19 civili. Vittime, queste ultime, che vanno ad aggiungersi alle centinaia di caduti di quello che è stato definito l’assedio di Homs, vale a dire della brutale repressione lanciata dall’esercito siriano contro la città  a partire dal 3 di febbraio, poco dopo che il Consiglio di Sicurezza aveva respinto, grazie al veto decisivo della Russia e della Cina, la risoluzione di condanna contro Assad. Homs, la terza città  della Siria, a 140 chilometri da Damasco e a una quarantina dal confine libanese, più che un obiettivo strategico da difendere sembra rappresentare per gli strateghi della repressione un obiettivo politico, una “punizione esemplare” da infliggere per evitare che l’opposizione conquisti terreno anche altrove, più o meno quello che è stato il caso di Hama, nel 1982, quando almeno dieci mila persone vennero uccise e il centro cittadino raso al suolo per soffocare nel sangue la rivolta dei Fratelli musulmani. 
Ma se si guarda al quadro generale della protesta esplosa 11 mesi fa e al lento, ma inesorabile scivolare della stessa verso una guerra civile guerreggiata, bisogna concludere che questa strategia non sta funzionando: i morti, secondo i calcoli dell’opposizione, sono più di 7300 (un dato che le autorità  di Damasco contestano) e, soprattutto, non c’è angolo del paese, ad eccezione di Aleppo e, in parte, di Damasco, dove non siano divampate le fiamme della rivolta. In questa situazione di accanita contrapposizione, segnata da un uso sempre più sproporzionato e indiscriminato della forza da parte del potere, il diritto d’informare, di documentare a 360 gradi, e non soltanto attraverso i canali della propaganda, è stato travolto, calpestato. E i giornalisti, da Gilles Jacquier della televisione francese, ad Anthony Shadid, del New York Times hanno finito con il pagare un prezzo altissimo, come non era successo finora in nessun’altra rivoluzione araba.
Adesso anche Marie Colvin, l’infaticabile reporter di tante guerre, che nel 2001, mentre copriva in zona Tamil la guerra civile nello Sri Lanka, aveva perso l’occhio sinistro colpito dalle schegge di una bomba ma, anziché ritirarsi a vita privata, aveva fatto di quella benda nera che spiccava come uno sfregio contro il suo chiaro incarnato, un segno distintivo del suo coraggio e della sua alta professionalità . Marie Colvin, assieme a tutta una generazione di corrispondenti, il Medio Oriente l’aveva nel cuore. Qui s’era fatta conoscere a cavallo degli anni ‘90 ottenendo riconoscimenti su riconoscimenti, stringendo amicizie durevoli, coltivando affetti. E qui è venuta a morire ubbidendo ancora una volta al dovere della testimonianza, la sua religione civile.
Adesso, davanti a tanta violenza, le capitali della politica mondiale ostentano un rinnovato attivismo verso la questione siriana. Il francese Sarkozy ordina ad alta voce: «Adesso basta! Assad deve andarsene». Il dipartimento di Stato americano fa capire che quella di armare i ribelli potrebbe essere una scelta fattibile in un futuro prossimo. La Russia, immemore dei suoi veti, cerca di negoziare l’accordo su una tregua giornaliera di due ore per permettere alla Croce rossa internazionale di soccorrere la popolazione stremata dei quartieri di Homs. Ma Damasco dice no. E, come ha scritto Marie, nel su ultimo reportage: «Viviamo aspettando il prossimo massacro».


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