Se lo sguardo si posa sul «bordo»
A declinare questa domanda e a innalzare la soglia della speranza ci provano due artisti – Mohamed Bourouissa, origini algerine, vive a Parigi e Tobias Zielony, tedesco – in una conversazione pubblica che si terrà stasera al museo Maxxi (ore 17). Sarà un gustoso assaggio, quasi un prologo alla loro mostra Peripheral Stages (visitabile fino al 27 maggio) dove con video, fotografie e lightbox i due artisti cercheranno di rappresentare quel «margine» urbano che viene definito correntemente periferia, parola prismatica e troppo ambigua.
Per dissertare sul bordo, limite, confine (già valicato) Bourouissa propone le riprese di uno scambio telefonico con un carcerato mentre Zielony si addentra, con settemila scatti notturni, nei meandri di Scampia. «Il mio lavoro – spiega – non si limita alla periferia. A Los Angeles, ad esempio, è impossibile distinguere tra centro e periferia. Alcune mie serie sono quasi completamente senza coordinate geografiche, come Gas Station. Naturalmente, sono stato attratto dalle periferie di città come Marsiglia, Napoli, Halle (Germania Est), Bristol. Penso che la periferia sia un luogo meno definito dai lunghi processi storici che hanno plasmato nel corso dei secoli una identità , come è accaduto in molti centri urbani. Spesso le persone che vivono in periferia sono emarginate, escluse da ricchezza, istruzione, partecipazione e politica».
Il suo lavoro artistico rompe con gli stereotipi che riguardano il concetto di periferia… in che modo?
Non ho mai seguito semplicemente le spiegazioni che la teoria sociologica offre quando affronta questi luoghi. Sono più interessato a sapere cosa si prova a trascorrere una serata intera in un parcheggio e sulla scalinata di un grattacielo. Come ti comporti per impressionare i tuoi amici? Quali marche sportive indossi? Da chi ti nascondi e a chi invece devi far vedere che esisti?
Qual è il cliché che i mass media tendono a veicolare?
Penso che un’immagine tipica sarebbe una fotografia in bianco e nero di un uomo infelice che guarda attraverso una finestra rotta. Poi c’è la criminalità , la violenza…. E parte di questa visione, effettivamente, potrebbe essere vera. Ma si dimentica che le persone che abitano in periferia possono provare felicità o tristezza, come accade ovunque nel mondo. Spesso i cliché vengono utilizzati per proteggerci da realtà politiche e sociali. Sono un alibi per non guardare in profondità , per sfuggire all’analisi di ciò che sta realmente succedendo. A me non piace il termine «periferia». Se non si intende in senso geografico, ma sociologico, ci si deve chiedere se c’è ancora una chiara distinzione tra la maggioranza e la minoranza che vive ai margini. L’attuale crisi economica dimostra quanto queste «suddivisioni» siano già sfocate.
Il suo progetto per Scampia: come è stato sviluppato?
Sono stato invitato dalla gallerista Lia Rumma a produrre un ciclo di lavori su Napoli. Mi sono ricordato una mia precedente visita anche a Scampia e ho pensato di lavorare sulle «Vele». Sapevo molto bene che non sarebbe stato facile, mi veniva presentato come un buco nero. La sua architettura, in effetti, è incredibile. Utopica e distopica allo stesso tempo. Brutta e bella, arcaica e futuristica. Specialmente di notte. Mi incuriosiva conoscere chi viveva lì. Il libro Gomorra di Saviano era stato appena pubblicato in lingua tedesca. Ho iniziato a leggerlo proprio mentre mettevo a punto il mio progetto su Napoli e mi ha aiutato a capire molte cose, soprattutto riguardo il contesto in cui le «Vele» sarebbero potute diventare set. Il film non era ancora stato girato…
È stata difficile la collaborazione con gli abitanti di Scampia? Arduo farsi accettare?
Non posso certo affermare che sia stato semplice. Le «Vele», in particolare, sono un posto super controllato. Non si può andare in giro a scattare fotografie. Siamo però riusciti a trovare una persona disponibile, è stata una sorta di guida per noi e ci ha dato un supporto fondamentale. Conosceva tutti: appena lo vedevano in nostra compagnia, la maggior parte delle persone si rilassava. Era importante spiegare agli abitanti che io sono un artista e non un giornalista.
Quali sono i sociologi, antropologi, filosofi a cui fa riferimento nel rappresentare la «periferia»?
Ci sono naturalmente dei teorici e autori che ho letto con grande interesse, come Mike Davis e il suo lavoro su Los Angeles. Molto spesso però non aiuta stare a casa, sedersi e mettersi a leggere. È più utile uscire, parlare con le persone, vedere i luoghi. Per il progetto sulle «Vele» ho usato anche una diversa fonte di ispirazione: le Carceri di Piranesi. L’artista aveva creato una visione distopica con grande preveggenza e ho rilevato molte assonanze tra i due luoghi. Principalmente mi hanno colpito le somiglianze di alcuni aspetti dell’architettura, come le suggestive scalinate.
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