Se la pentita sciolta nell’acido non è vittima di ‘ndrangheta

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ROMA — Fu un delitto di ‘ndrangheta, ma non secondo la legge. L’omicidio di Lea Garofalo, la «pentita» di origini calabresi sequestrata e uccisa a Milano e poi sciolta nell’acido nel 2009, viene giudicato come un delitto comune. La ‘ndrangheta è rimasta sullo sfondo: nella morte della pentita, sul piano giuridico, non c’entra. Con la conseguenza che ieri Lea e oggi sua figlia Denise — parte civile contro il padre e gli zii imputati, che è andata ad accusare in aula — non rientrano nella categoria delle vittime di mafia. Anche se tutti le considerano tali. 
È la curiosa contraddizione di un processo giunto alle battute finali. Nel dibattimento milanese a carico di Carlo Cosco (convivente di Lea Garofalo e padre di Denise), due suoi fratelli e altri tre imputati, presto toccherà  al pubblico ministero Marcello Tatangelo chiedere le condanne per un delitto che al momento ha la sola aggravante della premeditazione. Non quella di aver agevolato il clan di ‘ndrangheta delle cui attività  aveva parlato coi magistrati Lea Garofalo, che per questo sarebbe stata rapita e assassinata. E ora, sul filo di lana, è il legale di altre due parti civili costituite contro i Cosco, la madre e la sorella di Lea Garofalo, a chiedere al pm e alla corte d’assise di inserire l’aggravante della finalità  mafiosa. 
Secondo l’avvocato Roberto D’Ippolito, che rappresenta Santina e Marisa Garofalo, fin dalle indagini preliminari è emerso che «tutti i reati addebitati agli odierni imputati sono stati commessi con modalità  d’azione di stampo mafioso e con il preciso scopo di agevolare l’attività  di un’associazione di tipo mafioso, segnatamente della cosca di ‘ndrangheta di Petilia Policastro», in provincia di Crotone. Di quel clan avrebbero fatto parte i Cosco, in un contesto criminale che il legale ricostruisce anche tramite un altro cadavere: quello di Floriano Garofalo, fratello di Lea ucciso nel 2005, considerato un capoclan locale che «aveva dato spazio ai fratelli Cosco proprio in virtù della relazione che intercorreva tra Carlo e la sorella». 
In realtà , al momento degli arresti degli attuali imputati la pubblica accusa aveva contestato l’aggravante mafiosa. Ma il giudice la respinse con questa motivazione: «Non vi è alcun dubbio che i Cosco e la stessa famiglia Garofalo appartengano, storicamente, a contesti delittuosi di stampo ‘ndranghetista. Il problema è che questo “sfondo” è tratteggiato in modo troppo generico e coloristico per potere individuare una cosiddetta cosca di Petilia Policastro… Oggi l’unico dato certo è che i Cosco ammazzano per favorire se stessi». Dunque la contestazione cadde in attesa di ulteriori sviluppi dalle indagini, e il pm ha finora rinunciato a riproporla. 
Ora l’avvocato D’Ippolito ci prova davanti ai giudici della corte d’assise, insistendo sul fatto che dopo il sequestro Lea Garofalo fu interrogata per sapere quel che aveva rivelato agli inquirenti; un obiettivo che Carlo Cosco perseguiva da tempo, anche attraverso la figlia Denise. La quale ha raccontato che suo padre le domandava se conoscesse le dichiarazioni rese dalla madre ai magistrati, e come poteva fare per entrarne in possesso: «Mi chiese se c’erano delle carte, se poteva leggere ciò che aveva detto». 
Secondo la testimonianza di un altro pentito, l’intenzione di uccidere e far sparire il cadavere di Lea era stata manifestata da Cosco davanti «ad altri due “reggenti” della ‘ndrangheta calabrese». L’idea, ha dichiarato il collaboratore di giustizia, era far passare l’esecuzione come un delitto passionale, e adesso il rischio adombrato dal legale di parte civile è proprio questo: ridurre tutto a «una logica meramente d’onore, che rappresenta un’abile e suggestiva copertura di una matrice più complessa». Con un ulteriore paradosso. Un giudice di Campobasso ha già  condannato uno degli imputati per il tentato sequestro della stessa Lea Garofalo avvenuto sei mesi prima di quello riuscito, con l’aggravante della finalità  mafiosa. Lì la pentita uccisa è stata riconosciuta vittima di ‘ndrangheta anche secondo la legge, a Milano ancora no.


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