SCIASCIA L’UNIONE E LA TIRANNIA

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Non mi riferisco solamente alle domande più immediate e angoscianti (Che facciamo ora? Da dove cominciamo?), ma a quelle più insondabili e sicuramente più inquietanti sul medio termine: con quanta legittimità  si possono prendere decisioni per salvare l’Europa senza tenere conto degli europei? È accettabile sacrificare la sovranità  nazionale per salvare dalla bancarotta gli Stati nazionali e perfino l’Unione Europea? Abbiamo accettato definitivamente l’idea che sia possibile governare senza chiedere ai cittadini il loro parere? I cittadini sono diventati un intralcio in quella grande operazione di salvataggio che abbiamo intrapreso tutti insieme in nome del realismo nella politica europea? Il realismo in politica, scrive Sciascia, consiste in quella capacità  che ha la realtà  di rendere possibili e lecite cose e azioni che prese in astratto non risultano né possibili, né lecite. istituzioni, quantomeno di questa democrazia e di queste istituzioni (e mi spingerei a dire che si tratta di un’affermazione applicabile tanto alla Spagna quanto all’Italia, e – ne sono quasi certo – anche a un’altra decina di Paesi europei), ha condotto in altre epoche all’apoteosi di populismi e demagogie di infausta memoria, nutriti dallo stesso terreno fertile che oggi si può trovare nelle nostre società : la rottura repentina del benessere della cittadinanza, la certezza dei patimenti che ancora devono arrivare, l’ansia di fronte a un futuro più incerto del solito.
Accanto a questo malcontento per il deterioramento della situazione economica, che è comune alla maggioranza dei Paesi sviluppati, si diffonde tra spagnoli e italiani anche l’evidenza che la classe politica nel suo complesso non è riuscita (forse, collettivamente, non ci ha nemmeno provato) a essere all’altezza delle circostanze. Lo stesso si può dire delle banche, naturalmente, degli imprenditori, dei sindacati, delle istituzioni europee e della Chiesa. Si avverte sempre più, sicuramente dalle pagine dei giornali, ma anche, e in modo insistente, dalle strade, che né l’Italia né la Spagna si meritavano i politici che la governavano e che la classe politica in generale faceva male a sminuire, rifiutare, i segnali di saturazione e disaffezione tra i cittadini in un momento in cui entrambi i Paesi si preparavano ad attraversare un periodo di enormi tensioni sociali per l’aumento della disoccupazione e il tracollo dell’attività  economica. Tutti segnali che la classe politica ha preso con beneficio di inventario, nell’intimo convincimento, dobbiamo ragionevolmente supporre, che trattandosi di un male comune e condiviso da tutti le ripercussioni elettorali sarebbero state modeste o inesistenti.
Il risultato oggi è sotto gli occhi del tutti. L’ex presidente del consiglio italiano, Silvio Berlusconi, ha ceduto alle enormi pressioni e ha rassegnato le dimissioni; i socialisti spagnoli hanno subito una sconfitta di proporzioni colossali, perdendo qualcosa come quattro milioni e mezzo di voti sugli undici ricevuti nel 2008 e vedendo messa a rischio la loro continuità  come partito di primo piano nel processo democratico spagnolo. Intendiamoci: ritengo che il giusto castigo per la pessima gestione della cosa pubblica da parte di Berlusconi (non solamente la sua incapacità  di gestire l’economia, ma anche il penoso spettacolo di gaglioffaggine, disprezzo per le donne e scarsa cultura democratica messo in mostra nella sua agonia finale) consista più che naturalmente nel suo allontanamento dal potere; ma confesso che mi sarebbe piaciuto che questo allontanamento fosse avvenuto attraverso elezioni democratiche. E non discuto che i socialisti spagnoli meritassero di perdere alle urne per la pessima gestione dell’economia, per tacere di altri peccati; ma mi preoccupa che la disgrazia e la crisi in cui sono precipitati possano provocare come conseguenza la loro estromissione, anche se temporanea – e se sarà  temporanea lo sarà  per molti anni – dal ruolo di attore principale del sistema politico e del progetto della sinistra in Spagna. Anche in Grecia a capo dell’esecutivo siede un tecnico che non è stato eletto dal popolo. In altri Stati europei, i partiti al Governo corrono il rischio di essere rispediti a casa alla prima occasione, a prescindere da quello che faranno finché resteranno in carica. Il sistema mostra crepe preoccupanti in tutto il continente.
C’è un paradosso: i nuovi governanti, che siano stati eletti con maggioranze nette (cosa di cui in definitiva bisogna sempre rallegrarsi), come Mariano Rajoy, o che siano outsider della politica sostenuti dai rispettivi Parlamenti, si sono dedicati diligentemente a sviluppare quello che potremmo chiamare il «consenso di Berlino», cioè austerità  e tagli allo Stato sociale imposti sempre contro la volontà  della maggioranza (non potrebbe essere altrimenti). Accanto a tutto questo si osserva un’assenza assoluta di piani di stimolo alla crescita e all’occupazione, quando milioni di disoccupati, in tanti Paesi d’Europa, sono testimoni e vittime dell’incapacità  dei loro governanti di assolvere al loro principale dovere: proteggerli dal repentino venir meno delle loro aspettative di vita, cautelarli dalla rovina economica, garantire loro il futuro, un futuro, qualunque futuro, quel che sia. Non c’è da stupirsi, quindi, della perdita di legittimità  che tutto questo comporta per i Governi nazionali, per i loro presidenti o capi del governo, per i Parlamenti e per le istituzioni europee, la Commissione, il Consiglio che riunisce i capi di Stato e di Governo, la Banca centrale europea e altre, come la stessa moneta unica.
Gli ultimi anni e mesi hanno certificato quello che nessun osservatore qualificato e sufficientemente onesto potrebbe negare. I luoghi tradizionali della democrazia, i Governi e i Parlamenti nazionali, sono stati sopraffatti dalla loro incapacità  di rispondere di fronte ai cittadini delle misure che prendono in nome di un consenso europeo (in ogni caso meno solido di quanto non sembri) per uscire dalla crisi. A loro volta, ogni giorno che passa le istituzioni europee fanno capire in modo lampante almeno due cose. Da un lato, la loro incapacità  di formulare un’uscita dal labirinto, cosa che lede terribilmente la loro legittimità  di esercizio, assodato che la loro legittimità  di origine è alquanto claudicante per definizione. Dall’altro lato, il loro palese disprezzo per la cultura democratica che da sempre avrebbe dovuto animare la costruzione europea, un disprezzo ora incoraggiato dalla convinzione che le loro ricette siano ineludibili e che in nome della sopravvivenza stessa dell’euro e del progetto europeo non debbano essere sottoposte ad alcun dibattito fra i cittadini. I mercati finanziari impongono dunque le loro esigenze a discapito del consenso su che cosa siano, come funzionino o come abbiano funzionato e a cosa servano, e quali siano i limiti delle nostre democrazie.
Tutto questo, per di più, succede nel pieno di uno scollamento crescente delle società  europee e delle loro strutture politiche e sociali, di un decadimento sempre più accentuato del ruolo che noi quotidiani giochiamo nell’organizzazione e nella canalizzazione del dibattito pubblico. Da tutta questa confusione emerge però con chiarezza la difficoltà  di coniugare tre fattori: un sistema economico aperto alle necessità  della globalizzazione, maggioranze democratiche che appoggino questi processi (chi è disposto a votare per ridurre i propri privilegi?) e il vecchio ambito decisionale limitato agli Stati-nazione. Di fronte a questo dilemma vengono meno le certezze ed emergono i dubbi e le inquietudini, anche se, per pura intuizione, mi viene da concludere quanto segue: se l’Unione e l’euro non sono la soluzione, dimostrateci come possiamo cavarcela senza euro e senza Unione in un pianeta dove il potere economico e politico si sta trasferendo a tutta velocità  verso l’Est e verso i Paesi emergenti, e dove le piccole nazioni europee, vecchie di secoli e ormai logore, a malapena riescono a respirare da sole.
È necessario quindi che chiudiamo il prima possibile questa parentesi di realismo politico che in molti abbiamo accettato controvoglia – anche se, francamente, in questo momento non mi viene in mente una soluzione migliore per l’Italia – e dove, per il momento, sono possibili e perfino lecite cose e azioni che prese in astratto non risultano né possibili né lecite; dovremmo accettare più Europa, e questo sicuramente significa supervisione dei bilanci su scala europea, cessione di sovranità  in altre aree e una rottura con la tendenza alla gestione intergovernativa che finora ha giocato un ruolo preminente nella costruzione dell’Unione; e in cambio avanzare con decisione verso un’Europa federale, dove i cittadini possano eleggere partiti europei al Parlamento europeo, dove i deputati europei possano eleggere il Governo europeo, un contesto che ci metta nelle condizioni di ricreare i meccanismi fondamentali di una democrazia: responsabilità  di fronte ai cittadini-elettori, un sistema di controlli e contrappesi che risulti funzionale, una governance globale, continentale (e nazionale) capace di coniugare democrazia e mercati. Sappiamo che i mercati possono vivere senza democrazia, ma dovrebbe essere chiaro anche che non esiste democrazia senza mercati, o quantomeno non siamo stati capaci di far funzionare l’una senza gli altri da quando abbiamo inventato le due cose, la democrazia e il capitalismo.
Moneta unica, democrazia, progetto europeo, Stati nazionali, capitalismo, globalizzazione: è un grande dibattito, un grande dibattito che vale la pena sostenere, come propone La Repubblica, un grande dibattito che già  di per sé giustificherebbe la missione e l’esistenza di una stampa sempre più scollegata dagli eventi che ci travolgono a ritmi vertiginosi. Di fronte a tutto questo, c’è solo da persistere nel non abdicare a nulla e nell’essere coscienti di tutto. Nel peggiore dei casi cercheremo, come lo Zenone di Marguerite Yourcenar, di entrare nella morte con gli occhi bene aperti…
*Direttore del quotidiano El Paìs (Traduzione di Fabio Galimberti)


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