Romney non supera il 50%, ma Obama ha un avversario

by Editore | 2 Febbraio 2012 8:52

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Il presidente Barack Obama non è molto felice dei risultati delle primarie repubblicane in Florida tenutesi martedì, che hanno visto la vittoria dell’ex governatore del Massachusettes, il mormone Mitt Romney (46 %), sull’ex presidente della Camera Newt Gingrich (32%); mentre sono stati distanziati l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum (13%) e il texano ultra-antistatalista Ron Paul (7%).
I democratici avrebbero certo preferito un distacco minore tra Romney e Gingrich: più incerta la battaglia delle primarie, più risorse i candidati devono investire per combattersi tra di loro, meno gliene rimangono per la battaglia contro Obama. Non solo, ma più dura è la competizione tra repubblicani, più gli attacchi reciproci spalmano fango, come si è visto proprio in Florida, e più la loro immagine ne esce deturpata.
È la ragione per cui sotto sotto i democratici tifano perché – contro ogni logica – Newt Gingrich (che aveva vinto in South Carolina) continui a battersi, come ha promesso martedì sera ai suoi sostenitori che sventolavano striscioni con su scritto «ci sono ancora 46 stati», «ancora il 95% dei delegati da conquistare».
Tecnicamente è vero che la competizione delle primarie è ancora tutta da correre. Tanto più che, come osserva John Nichols su The Nation, Romney non è ancora mai riuscito a superare la barra del 50%. E i candidati repubblicani che hanno avuto difficoltà  a oltrepassare questa soglia (come Bob Dole nel 1996 o John McCain nel 2008) – Nichols fa notare – hanno poi perso le elezioni contro il candidato democratico a novembre, mentre quei candidati che hanno sforato assai presto il muro della maggioranza assoluta, come George Bush, hanno poi vinto (anche grazie a una specie di colpo di stato della Corte suprema, come avvenne nel 2000).
Gli sconfitti in Florida avranno ora un po’ di tempo per riorganizzarsi perché a febbraio si voterà  sì in 9 altri stati, a partire da sabato 4 in Nevada, ma in sei lo si farà  col metodo delle assemblee (caucuses) e non del voto diretto, e quindi costituiscono test relativi prima del «supermartedì» 6 marzo, giorno in cui si voterà  in ben 11 stati (Alaska, Georgia, Idaho, Massachusetts, North Dakota, Ohio, Oklahoma, Tennessee, Vermont, Virginia, Whyoming).
Per risollevare le proprie sorti, sia Gingrich che Santorum (che aveva vinto di misura in Iowa) puntano sugli stati del profondo sud, della Bible belt, in cui dominano i cristiani conservatori e i Tea Party, mentre Ron Paul persegue la propria strategia che è quella di 1) accumulare abbastanza delegati da poterli mercanteggiare in sede di Convention per influire sul programma di governo; 2) preparare il terreno per una candidatura presidenziale, tra quattro anni, di suo figlio Randa, senatore del Kentucky.
Infatti «due terzi dei votanti alle primarie di Florida hanno detto che appoggiano il Tea Party, e circa il 70% fra questi ultimi respinge Romney. Tra il 70% dei votanti alle primarie che s’identificano come conservatori, la stragrande maggioranza respinge Romney. E sul terzo dei votanti alle primarie di Florida che s’identificano come ‘assai conservatori’, Gingrich ottiene il 43% contro solo il 29 % a Romney» (Nichols). Insomma, i democratici puntano ancora sulla spaccatura nel partito repubblicano e sul fatto che Romney non riesce a convincere la base conservatrice di un partito che nell’ultimo decennio si è andato vieppiù estremizzando a destra.
Ma in realtà , a meno di sorprese nella Convention di Tampa ad agosto, Romney è ormai quasi certo della nomination, non solo per désespoir de cause, perché le alternative sono ancora più impresentabili di lui, ma perché l’establishment finanziario (di cui lui è un esponente) lo sovvenziona con estrema larghezza. Nella sola Florida Romney ha speso ben 15,4 milioni di dollari contro i soli 3,8 di Gingrich.
A meno di clamorosi sviluppi come un attacco all’Iran, l’impressione però è che, anche se non lo confesserà  mai, l’establishment repubblicano sta già  dando per persa questa tornata presidenziale 2012, proprio per mancanza di candidati eleggibili. Invece il Grand Old Party sembra voler concentrarsi sulla campagna politica per rafforzare ancora più la propria maggioranza alla Camera dei rappresentanti e strappare una buona volta il Senato ai democratici: a novembre si vota infatti non solo per eleggere il presidente e i governatori di vari stati, ma anche per rinnovare in toto la Camera bassa (negli Usa il mandato dei deputati dura solo due anni), e per rinnovare un terzo dei senatori (eletti per sei anni): se i repubblicani riuscissero nel loro intento, la presenza di un democratico alla Casa bianca per un secondo mandato sarebbe quasi irrilevante, perché Obama sarebbe ostaggio e prigioniero di Camera e Senato in mano ai suoi avversari.

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